4 Corrispondenza Simone Weil-Joe Bousquet

Venerdì 10 Marzo 2023 00:00
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Opinion | What We Owe to Others: Simone Weil's Radical Reminder - The ...Lettera di Simone a joe 12 maggio 42

Lo ringrazia del suo contributo, che attraverso lei forse gioverà ad altri. ‘Forse alcuni di loro le saranno debitori, nell’approssimarsi dell’istante supremo, della dolcezza di uno scambio di sguardi’.

Simone gli scrive che è privilegiato a percepire gli avvenimenti di guerra nella loro realtà, quando sia chi combatte che chi assiste da fuori è preda di una sorta di irrealtà. Ricostruisce da vent’anni i destini di chi è stato preso e lasciato, o menomato dalla guerra, e di nuovo a breve altri verranno chiamati alla stessa sorte. Simone vuole incoraggiarlo. Dice in metafora che lui è pronto a rompere l’uovo, immagine antica. L’uovo è il mondo visibile. Il pulcino è l’amore, amore è Dio stesso che abita nel profondo di ogni uomo come seme invisibile. Quando il guscio è rotto e l’Essere uscito, ha per oggetto ancora questo stesso mondo, ma non vi è più racchiuso dentro. Il corpo é lasciato in un angolo mentre lo spirito viene trasportato fuori dallo spazio dove il mondo visibile si vede tal quale (non da un punto personale prospettico); lo spazio, comparato all’uovo, è infinito alla terza potenza. L’istante è immobile, il silenzio denso riempie lo spazio e non è assenza di suono: è sensazione positiva del suono della parola segreta AMORE che sin dall’inizio ci abbraccia.

Fuori dall’uovo joe conoscerà la realtà della guerra, che in effetti è ‘irrealtà’, e conoscerla è la pienezza del reale; la guerra dimora nel corpo di joe da anni e attende che sia pronto a conoscerla, i caduti non hanno avuto il tempo, i ritornati incolumi hanno preferito l’oblio perché è difficile volgere il pensiero alla sventura. Per pensare la sventura bisogna portarla nella carne, come un chiodo e a lungo, cosicché il pensiero abbia il tempo di temprarsi per riuscire a guardarla da fuori, essendo il pensiero riuscito a liberarsi dal corpo e anche in un certo senso dall’anima. L’anima e il corpo restano inchiodati in un luogo, sia che la sventura imponga o non imponga l’immobilità, rimane un’immobilità dell’anima legata sempre al dolore. Nell’immobilità il granello d’amore divino può crescere. Fermi e in attesa, senza turbamento. Chi ha la sventura nella propria carne ha la funzione di conoscere la realtà nella sua verità, e contemplare la sventura del mondo. Funzione redentrice. Sventurato chi non assolve a questo compito, avendolo.

L’altro di cui joe parla si nutre di joe stesso: secondo Simone non è che Joe non sa la differenza tra bene e male, è che lui non ha ancora acconsentito al bene. Simone per spiegarsi usa la metafora della verginità: c’è un punto ignoto ma preciso segnato nell’eternità che arriva per tutti oltre il quale l’anima perde la sua verginità; se non acconsente al bene viene subito dopo presa dal male, e inconsapevolmente accoglie dentro di sé l’autorità esterna. E’ un punto di non ritorno. L’anima prende un narcotico per consegnarle la sua verginità, non occorre aver detto SI al male per esserne posseduto. Mentre il bene prende l’anima solo quando è consenziente. E’ un consenso nunziale a Dio. Il massimo che può fare una persona è infatti mantenere intatta questa facoltà sinché non giunge il momento. Il momento per joe si avvicina e la sua facoltà di assenso è ancora intatta: se acconsentirà romperà l’uovo, uscirà e da fuori riuscirà a guardare fisso il male che ha dentro sino a sentirne la ripugnanza, prima di dire si al suo contrario (il bene).

Nella sventura bisogna guardarsi anche dal sogno, che serve a sopportare ma ha l’inconveniente di non essere reale, è una menzogna che esclude l’amore. Rinunciarvi per seguire la Verità è come portare la croce. Simone si dispiace di indirizzargli questi pensieri, ma é Dio che si esprime tramite lei. E poi parla di sé. Non paga le sue qualità morali con ‘diffidenza’ verso sé stessa[1], il suo atteggiamento verso sé stessa è disprezzo, odio e repulsione a livello biologico, a causa del dolore fisico[2] che l’accompagna da 12 anni.

A causa dei dolori aveva perso completamente la speranza, come un condannato a morte, e si sosteneva con la fede, che aveva sin dall’età di 14 anni, ma spesso si chiedeva con orrore se non fosse stato meglio morire, dato l’aggravarsi del dolore al corpo e all’anima. L’idea di una morte a breve le aveva ridato serenità. (Simone morirà l’anno dopo, il 22 agosto ’43)

Gli racconta di quando, in questo stato fisico, era stata operaia d’officina meccanica per circa un anno e si era così immedesimata con l’esperienza e la massa umana per la quale provava simpatia, che la sventura della degradazione sociale le era entrata nel cuore e da allora si era sentita come una schiava.  La parola di Dio l’aveva accolta solo di recente, da tre anni e mezzo, quando in un momento di dolore si sforzava ugualmente di amare e aveva sentito – senza esservi preparata – una presenza; da quel giorno il nome di Dio e Cristo avevano abitato i suoi pensieri. Sino a quel giorno aveva praticato l’amor fati stoico, come Marco Aurelio, un amore per la città e i suoi avvenimenti necessari. Dopo l’esperienza divina la quantità enorme di odio e repulsione legate alla sofferenza e alla sventura si erano riversate su di lei ed era arrivata a pensare l’eventualità che, in quello stato, nessuno potesse provare amicizia per lei. Era così grata verso chi ci provasse, ritenendo l’amicizia una vera ‘sorgente di vita’ per lei, perché avendo corpo e anima avvelenate il pensiero non poteva abitarli, e non potendo il pensiero abitare in Dio se non per pochi istanti, spesso abitava nelle cose ma non era umano, e così l’amicizia donava al suo pensiero una parte di vita.

Infine, presso coloro che sentono l’esistenza come un male è facile seguire il comando di Cristo ‘negare sé stessi’. Sventura e gioia data dall’adesione alla bellezza sono le chiavi per il ‘paese del reale’.

C’è un amore divino che si tocca al punto estremo del dolore: esso è l’essenza del non sensibile, nucleo centrale della gioia (non è consolazione). Il male invece è per weil tutto ciò che consta nella consolazione, la pura gioia non lo è mai e a volte può sostituirsi o sovrapporsi alla sofferenza per un certo tempo. Nell’aggravarsi della sofferenza si può trovare consolazione (come diceva prima). Ha il dubbio di non esprimersi adeguatamente, sebbene il concetto le sia chiaro. Lei cade spesso nella pigrizia e nell’inerzia, la vede come una forma spregevole di consolazione, e perciò si disprezza.

Acclude la poesia LOVE del poeta metafisico Herbert che recitava a sé stessa il giorno che Cristo venne a prenderla: non sapeva che fosse una preghiera; e allega dei libri, e un Vangelo greco che considera il Graal.

Love parla di ‘Amore’ come di una Entità che le dà il benvenuto nonostante la sua Anima si ritragga perché non si ritiene degna di così tanto amore; Amore chiede se ha bisogno di qualcosa e lei desidera un ospite. Amore le dice che è lei l’ospite, ma ancora non si sente degna; allora Amore la prende per mano, le dice che Lui l’ha creata, lei vorrebbe rendersi utile prendendo la colpa ma Lui ha già preso su di sé ogni colpa, e la invita a sedersi e desinare. ‘Così sedetti e mangiai’ (Love è quindi l’incontro personale di ognuno con il Creatore, l’accettare il Suo amore, ritrovando sé stessi come una parte di Lui.)



[1] Joe aveva usato la parola fiducia, non diffidenza.

[2] Dolore localizzato in un punto del sistema nervoso, che lei dice di ‘congiunzione tra anima e corpo’.