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di Valeria Ballarati

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Tutta la verità sulla mia vita da cavallo

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Come fu che mi feci mordere e scalciare ripetutamente ma alla fine riuscii a convincere 15 cavalli che ero uno di loro anche se non ero bravo a nitrire.
La mia passione per i cavalli è iniziata nel 1985, quando avevo 30 anni. Non avevo mai fatto equitazione e avendo terra a disposizione, e non volendo allevare animali da macello, decisi che i cavalli potevano essere una buona soluzione.
Non sapendone nulla comprai le giumente più mansuete che riuscii a trovare: cavalli da lavoro da montagna, cioè cavalli selezionati da secoli per docilità, intelligenza e resistenza. Non vanno veloci neanche se gli spari ma non si fermano mai. Esattamente il contrario dei purosangue, selezionati per la velocità e per dare tutto in pochi minuti, quindi animali molto più irrequieti...
Ma nonostante questa scelta prudente mi resi subito conto che aver a che fare con belve che pesano 500 chili e non parlano l'italiano è veramente problematico.
La prima tragica esperienza la feci riportando a casa una cavalla appena acquistata. Sapevo che per andare a destra bisogna tirare la redine corrispondente, idem per la sinistra, per fermare si tirano entrambe le redini e per far andare la bestia bisogna fare uno schiocco con la bocca e dargli dei calcetti sui fianchi e dire ohh ohh! Un conto è dirlo.... Ci misi 4 ore a fare 6 chilometri e me li feci praticamente tutti a piedi, cercando di trascinare quella bestia, che oltretutto si chiamava Fru Fru...


Non ne voleva proprio sapere di venir via dalla sua stalla e ogni volta che ci salivo sopra faceva dietrofront per tornare a casa; e potevo tirare le redini quanto volevo ma non c'era verso...
La mia seconda cavalcata andò un po' meglio. Piovigginava e io dovevo controllare che non ci fossero buchi in un recinto di diecimila metri quadrati, in mezzo al bosco. Prendo la cavalla più buona che avevo, una vecchia pezzata bianca e nera di nome Gilda, che era la cavalla dei matrimoni di Gubbio (tirava il calesse e si fermava se il semaforo era rosso).
Le metto la coperta, la sella, la testiera, il morso con le redini attaccate, monto sopra (non facile, per riuscirci la devo tirare vicina a un pietrone) e parto per la mia esplorazione su e giù per i dirupi del bosco. Piove sempre di più, la cavalla si scoccia e passa sotto un albero con la netta intenzione di farmi sbattere contro un ramo e buttarmi giù. Ma io sono giovane e lesto e mi sdraio sulla sua schiena per passare sotto un ramo. Ma la dispettosa è anche astuta e dopo il primo ramo ce n'è un secondo più basso e io finisco per terra. E (cavolo!) capisco tutto d'un colpo un sacco di film western che ho visto, perché resto con il piede sinistro incastrato nella staffa e mi rendo conto che se piglia a correre o mi da un calcio sono finito. La cavalla fa due passi trascinandomi sul prato intriso d'acqua gelida, giusto per farmi capire quanto io sia nella merda, poi si ferma e gira la testa per guardarmi negli occhi. E giuro che aveva chiaramente un'espressione di commiserazione. La ringrazio per non avermi terminato. Mi ricompongo e risalgo in sella. Ad un certo punto inizia a piovere intensamente... Ma che volete che sia un po' di pioggia a gennaio, mi rimbalza, ormai sono in un delirio da cowboy selvaggio. Arrivati in cima a un pratone praticamente verticale la cavalla si impunta e non vuole più andare avanti. Allora mi sporgo sulla sella verso un albero, strappo un rametto e lo uso come frustino facendolo sibilare dietro il suo sedere (senza colpirla, basta il rumore). Non si muove. Insisto e le do un colpetto sulla chiappa, giusto per farle capire chi comanda. Allora lei si gira, mi guarda in faccia contrita, scuote ripetutamente la testa per segnalarmi il suo disappunto, emette una specie di sbuffo spernacchiato di sconsolamento (giuro!) e poi fa un passo giù dal pendio. E istantaneamente mi rendo conto che la sella si è staccata, io sto scivolando lungo il collo bagnato della cavalla, un millesimo di secondo dopo ho le sue orecchie in mezzo alle cosce e successivamente sto precipitando giù per il prato con la sella che funziona tipo slitta da neve, mi faccio 20 metri poi a ruzzoloni e finisco in un roveto. Ci metto un po' a uscire dalle spine conficcate ovunque che San Sebastiano è un dilettante, mi rimetto in piedi mentre viene giù il Diluvio Universale per via che Dio sta sghignazzando per la mia idiozia, guardo in cima al pratone e vedo Gilda, immobile nel muro di pioggia che mi guarda con quella faccia tipo: "Ma lo sai che sei un gran cazzone?"
E lì ho capito che se volevo sopravvivere avevo bisogno di un po' di metodo.
Inizio a tampinare amici umbri, sardi e danesi che con gli equini ci sapevano fare e inizio a capirci qualche cosa di più (tipo come NON allacciare la sella se vuoi che resti attaccata alla belva).
Imparai così come si fa a caricarsi sulla schiena un puledro neonato che è caduto da un dirupo e riportarlo su alla madre. Imparai che con un po' di pazienza la madre capisce che si deve sdraiare per allattare quel puledro perché lui non sta in piedi e che se sei stanco morto dopo che ci sei riuscito e ti sdrai sulla giumenta usandola come cuscino puoi anche addormentarti e ci si può fare una bella dormita tutti e tre assieme.
Imparai che ci sono diversi modi per guidare un cavallo, che può andare a marcia indietro e che esistono scarpe per cavalli che sostituiscono i ferri ma è un gran casino infilarglieli (ha 4 piedi!) e poi camminano come un cartone animato perché sono molleggiati.

Per un po' il mio lavoro principale è stato governare i cavalli, curarli e poi (tempo dopo e dopo parecchi morsi, calci e voli pindarici causa violente sgroppate) arrivai a fare lezione di equitazione ai bambini. Successivamente ho iniziato a fare sessioni di ippoterapia con persone con vari tipi di problemi e mi sono reso conto della sensibilità dei cavalli che cambiano addirittura il modo di camminare se in groppa hanno un bambino o un disabile. E ho visto anche che con questi animali si può sviluppare una situazione di empatia veramente straordinaria. Ci si capisce proprio al volo. A quel punto far stare cinque cavalli immobili mentre cinque bambini si mettono in piedi sulla sella, non è poi così complicato se li guardi negli occhi (i cavalli).
Ben presto però ho iniziato ad avere dubbi sul modo in cui i cavalli venivano generalmente domati e allevati.
Trovavo il morso, il frustino e gli speroni strumenti violenti e iniziai a chiedermi se non fosse meglio sperimentare altre modalità.
Fin dall'inizio decisi che non avrei tenuto i cavalli chiusi in box, che sono celle piccolissime per cavalli. Li lasciai liberi in grandi recinti con solo una tettoia per quando pioveva.
Mi dicevano che se facevo così non potevo poi prenderli quando volevo, per montarli. Ma verificai che non era vero, mi bastava chiamarli tenendo in mano un catino pieno di avena per vederli arrivare di gran corsa.
E non era vero che un cavallo va castrato perché sennò nella stagione degli amori non ti dà retta. Potevo prendere lo stallone in calore e metterci sopra mia figlia Mattea, che aveva due anni, e vedevo che lui non solo era docilissimo ma appoggiava le zampe per terra come se camminasse sulle uova per non darle scossoni e rischiare di farla cadere. Poi magari ci salivo sopra io e mi buttava per terra. Ma lo faceva solo per giocare. E, incredibile, mi buttava per terra solo se eravamo su un prato, mai se eravamo su un terreno sassoso! Gentilissimo...

Piano piano, di esperimento in esperimento, eliminai il morso (quel ferro che viene messo in bocca che se lo mettessero a me mi incazzerei...) e sperimentai che ubbidiscono perfettamente anche solo con una corda legata intorno al muso e alla testa e due redini. Anche le selle mi sembravano troppo pesanti e sperimentai una specie di sella ungherese, praticamente uno strato di tre centimetri di feltro e cuoio, tenuto fermo da tre cinghie (sotto la pancia, intorno al collo e intorno alla coda).
Con il mio fratello di sangue Sergio Angese, che diventò un grande cavallerizzo, molto più bravo di me, passammo ore a discutere e sperimentare per capire il modo tradizionale di andare a cavallo e come riformarlo...
Tra l'altro scoprimmo che non è per niente vero che per insegnare a un cavallo a fare qualche cosa devi spezzettare quel che vuoi che faccia, insegnarli un movimento per volta ripetendolo decine di volte e poi fargli fare tutti i movimenti in sequenza.
Se un cavallo vive libero, non viene trattato con violenza e hai con lui un contatto quotidiano improntato all'empatia lui prende gusto nel rapporto con gli umani. Con Titti, una bestia di 600 chili, facevo ogni giorno lezione con i bambini, per due o tre ore. Quando arrivava un gruppo nuovo tenevo una concione introduttiva e un giorno mi viene in mente che per far ridere i piccoli posso provare a fare una sciocchezza: dico che bisogna salire a cavallo non dal fianco ma partendo di fronte. Ci si mette davanti al muso dell'animale ci si attacca con le mani al collo, sotto le orecchie, e si sale. Ovviamente si tratta di un'azione impossibile, e io invece di arrivare sulla groppa finisco appeso con mani e piedi al collo del cavallo. I bambini ridono per la mia stupidità e per me il numero era finito lì. Ma Titti autonomamente ha un'idea per far divertire di più i bambini e mi mette il ginocchio anteriore sotto il sedere e mi spinge in su cosicché, io facendo forza con la mano sulla sua zampa, finisco a cavalcioni sulla sua schiena. Il giorno dopo ripeto il numero con un altro gruppo e quando sono di nuovo appeso al suo collo mi aspetto che mi aiuti col ginocchio a salire. Invece no, trova una seconda soluzione, alza il collo con un certo slancio, buttando la testa all'indietro e io con una mezza giravolta (agile come un ramarro) mi trovo in sella.
Ora io vorrei osservare che questa secondo me è intelligenza empatica!
Un' immagine che mi è restata impressa è quella di Mattea che a tre anni voleva spostare da sola un branco di una decina di cavalli usando un frustino da doma lungo due metri. Voleva assolutamente che io restassi indietro e si era messa ad agitare il frustino e a fare versi. Incredibilmente i cavalli le ubbidivano perfettamente ma tutti camminavano in avanti con la testa girata all'indietro: guardavano tutti Mattea per essere sicuri che non gli finisse tra le zampe... E per un cavallo non è normale camminare guardando all'indietro!

Passano gli anni e a metà dei gloriosi '90 trovo un libro: L'uomo che ascolta i cavalli (di Monty Roberts, da non confondere con L'uomo che sussurrava ai cavalli che poi ci hanno fatto il film con Redford) e scopro che la mia idea sulla doma dolce aveva qualche cosa di sensato, ma che c'erano potenzialità che non avevo mai nemmeno ipotizzato: cambiare totalmente il modo di concepire la relazione con i cavalli, risparmiando fatica e ottenendo un'affidabilità altrimenti impossibile.
Credo che a questo punto vorrai assolutamente capire di cosa si tratta e sapere tutto sul mio incontro con David Bassi e Monica Citti. Allora leggi qui.

Jacopo Fo

Commento: spassosissimo! Però non vi perdete il resto della storia QUI 

(e la discussione che ne é scaturita sul blog)