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di Valeria Ballarati

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Il parto in casa

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"Stanotte la nostra vicina di casa ha partorito. Ha partorito a casa, intendo. Una coppia giovane, sulla trentina andante come me e mia moglie, al loro secondo figlio. Lo sapevamo; ci aveva avvisati con largo anticipo. Ma non si può essere mai del tutto preparati a una nascita, e lo si riscopre quando il miracolo comincia a verificarsi. La nostra casa ha cinque appartamenti, e loro sono i dirimpettai. A letto, col sonno leggero del post-allenamento, ho sentito le prime grida che sarà stata mezzanotte. Intorpidito ho fatto mente locale sulla fase lunare. Chiaro. Mi sono alzato. Ho acceso una candela. Poi ho preso i tappi cerati per le orecchie. Non ridete; questi li aveva regalati lei stessa a tutti un mese fa, in un sacchetto lasciato fuori dalla porta insieme a un bigliettino un po' tenero e un po' ironico, a del cioccolato e a delle bustine di tisana rilassante. Li ho infilati, mi sono disteso, ma nulla. Nessun dorma, nessun dorma. Mi pareva di sentire ancora le grida, o di stare a immaginarle. Nessuno riuscirebbe a riaddormentarsi e non per il rumore, ma per l'aria che vibra di una vita dal cosmo, là accanto, che ha deciso di discendere - e misero colui che ci riuscisse.


Un parto in casa. In Olanda, e se ricordo bene anche in Inghilterra, fuori di casa aspetta un'ambulanza, pronta per ogni evenienza; mentre dentro c'è solo l'ostetrica e coloro che eventualmente la donna desidera, quindi anche nessuno. Qui in Germania invece il parto in casa subisce ancora i ricatti della medicalizzazione della gravidanza, in cui una donna che deve mettere al mondo un bambino è un "malato". Il sistema sanitario è semi-privatizzato e a dissuadere dall'idea ci pensa la cultura della paura - verso le donne - e le ganasce dei costi, perché un'ostetrica che voglia accudire una partoriente ha bisogno di un'assicurazione apposita con cui si fa carico di ogni responsabilità; costi che scoraggerebbero i più. Nonostante ciò, sempre più ostetriche, soprattutto giovani, scelgono di farla, in quella che è divenuta una battaglia di principio. L'ospedale può essere una scelta; la battaglia è perché entrambe le scelte siano tutelate allo stesso modo. In Italia non so, e forse non lo voglio sapere.

Un parto in casa lo capisci solo quando lo vivi, perfino soltanto da vicino di casa. Perché con quelle grida che non puoi non sentire vieni benedetto, e diventi partecipe. Sentivamo i rumori, da tutti gli appartamenti; l'emozione. Il parto in casa non genera solo un nuovo nato, esso genera l'umanità.

Un proverbio Nativo dice che per crescere un bambino ci voglia un villaggio. Si riferisce chiaramente alle energie necessarie, alla pluralità di esempi e di amori, ma facendo un passo oltre ci dice che per accogliere l'infanzia, per concepirla in noi, c'è bisogno dello sforzo unito e dell'affetto di tutta la specie, genitori o meno; degli umani tutti. Un parto in casa strappa la nascita di un nuovo essere umano dall'automatismo, in cui i bambini compaiono in grembo ai genitori dopo essersi recati nel grande camerone, e la riscaraventa nella vita delle persone attorno, per scuoterle, destarle dal torpore, dalle scontatezze, dai deliri dell'Io.

Alla fine mi sono addormentato. Alle 5, quando mi sono alzato, ho aperto la porta del pianerottolo. C'era una cicogna di legno fuori dalla porta, lasciata per dirci che era andato tutto bene. Al becco, già pendeva un pacchetto, lasciato dalla padrona di casa al piano terreno, più mattiniera di me. Caso strano: un travaglio breve, un parto sereno.

E io credo che quando incontrerò questo nuovo piccolo fratello o questa nuova piccola sorella a trottare sul pianerottolo, negli anni a venire, lo vedrò e lo riconoscerò con occhi diversi, perché quando è arrivato dagli abissi sub-atomici del mistero della materia, io ero lì vicino.

Riappropriamoci della nascita e ci riapproprieremo del mondo."

Andrea Atzori - dal web