Vuole venti euro. Mia figlia vuole venti euro per andare al cinema con gli amici. La proiezione del film inizia alle 20:30.
“Ma prima andiamo a cena…” – mi dice con aria complice.
Guardo l’orologio: sono le 19:40. Per arrivare al multisala a piedi occorrono almeno quindici minuti, quindi mi chiedo – e le chiedo – come diavolo possano, lei e il gruppetto di coetanei, trovare il tempo di andare a cena “prima”.
Mi guarda come se fossi un reperto archeologico e m’informa che nel multisala ci sono ben due “fast food”.
“Dieci minuti, una quarto d’ora al massimo e abbiamo cenato.”
Ora, io so benissimo che nel multisala ci sono due fast food. Però mi ostino a rimuovere la cosa. Detesto mangiare in fretta, anzi detesto la fretta tout court.
Così, mentre sgancio i venti euro e mia figlia sgancia a sua volta un bacetto di gratitudine prima di involarsi verso l’uscita, ripenso alla mia infanzia…
Avevo sei anni e mio padre acquistò un’automobile nuova, che sostituiva la gloriosa e infaticabile “600” Fiat: una Dauphine, della Renault. Era un’auto dalla linea slanciata e tondeggiante allo stesso tempo e prometteva “velocità”.
“Domenica prossima andremo in gita e raggiungeremo i 100 all’ora…” – annunciò mio padre, con una punta di orgoglio. Era martedì, quando lo disse. E quei cinque giorni d’attesa sembrarono interminabili. Ma, quella domenica, montammo in macchina in formazione tipo: mio padre alla guida, mia madre al suo fianco, io sul sedile posteriore.
Ero emozionato come mai prima.
Raggiungemmo una strada provinciale: un rettilineo di 4 chilometri che chiedeva solo di essere divorato “a 100 all’ora”, come raccontava una famosa canzone dell’epoca, di Gianni Morandi.
Ecco, ricordo benissimo: a quel punto, mio padre accelera come se non ci fosse un domani. In un tempo che oggi sembrerebbe da bradipo, ma che allora appariva frenetico, la Dauphine raggiunge i 60 orari, poi i 70… gli 80… e mio padre comincia a rallentare, scuotendo la testa, scoraggiato.
Lo guardo, deluso, e lui, ricambiando lo sguardo attraverso lo specchietto retrovisore, mi dice che l’auto “sbanda in testa” e che quindi non è prudente accelerare ancora.
Il motivo?
La Dauphine montava un motore posteriore e il bagagliaio anteriore, vuoto e capientissimo, era troppo leggero per sostenere le alte velocità. Prima che cominciassi a piangere per la delusione, mio padre mi chiese tempo fino alla domenica successiva.
“Vedrai che domenica prossima li raggiungiamo, i 100 all’ora. Te lo prometto.” – mi assicurò.
Nutrivo una fiducia totale nei confronti di mio padre, quindi mi misi buono buono ad attendere che trascorresse un’altra settimana interminabile. Nel frattempo, mentre contavo i giorni, mi domandavo cosa diavolo potesse cambiare in una settimana, per far sì che la nostra Dauphine non “sbandasse in testa”.
La risposta arrivò la domenica successiva.
Mio padre acquistò una vecchia incudine da un rigattiere. L’oggetto era un po’ arrugginito, ma pesava quasi cento chili. Lo depose, con l’aiuto di un amico, al centro del bagagliaio vuoto, per bilanciare il peso del motore posteriore.
E l’auto acquistò una stabilità in corsa che prima non aveva.
60… 70… 80… 90 chilometri orari…
Sul rettilineo, intorno alle 11 del mattino di una domenica di primavera, la nostra Dauphine sfrecciò a 105 all’ora senza sbandare di un solo millimetro. E io esultai come se avessimo appena vinto il Gran Premio.
Prima considerazione: la settimana in più di attesa aveva reso l’evento ancora più eroico. E lo scorrere lento dei minuti, delle ore, dei giorni, mi aveva fatto assaporare l’ebrezza dei 105 orari con maggiore intensità.
Seconda considerazione: mio padre aveva acquistato la Dauphine perché, a forza di procedere lentamente e vedersi sorpassare da automobili più potenti, aveva sentito l’urgenza di cambiare auto.
Ecco il punto: l’urgenza.
L’urgenza è un bisogno di velocità che non ha nulla a che fare con la fretta.
Anzi, la fretta, spesso, fa in modo che non ci si renda conto di quali sono i nostri veri bisogni. Le nostre urgenze.
Per una strana contraddizione, procedere frettolosamente ci toglie il tempo giusto per fermarci a guardare, anche a guardare dentro di noi. E scoprire, magari, chi siamo e cosa vogliamo davvero.
Quando mi chiedono come mai abbia iniziato a scrivere il mio primo romanzo alle soglie dei sessant’anni, penso proprio a questo: che sono un uomo in ritardo perenne, perché refrattario alla fretta. Ho iniziato a scrivere sceneggiature a 36 anni compiuti, dopo aver fatto mille lavori diversi. Come se avessi atteso a lungo l’urgenza di capire cosa volevo fare davvero della mia vita. Sulla stessa scia, mi sono sposato a 42 anni, ho avuto la mia prima figlia a 43…
Ma io probabilmente esagero, sono un caso limite di lentezza congenita.
Però, forse, è proprio grazie a ciò che, a volte, riesco meglio a cogliere le mie urgenze, cosa voglio davvero, quanto e se valga la pena di mettersi in gioco per cercare di raggiungere l’obiettivo. Anche a costo di acquistare un’incudine e piazzarla nel bagagliaio per non sbandare troppo.
La fretta non è veloce, a mio avviso. Lo è l’urgenza, che però riesci a cogliere soprattutto se procedi con lentezza, dandoti il tempo per “capire”.
E rallentando, appunto, si colgono alcuni particolari…
Ogni sera, dopo mezzanotte, porto a passeggio i miei cani. Mentre loro annusano il terreno, passo accanto a un ristorante che rimane aperto fino a tarda notte.
Dalla sala interna provengono le note di un gruppo musicale che esegue brani “pop” degli ultimi trent’anni e, a volte, anche del buon “blues”.
Il batterista ha un piccolo difetto: come si dice in gergo, “tira indietro”. Rallenta il tempo picchiando sul rullante con un ritardo di un trentaduesimo di battuta, su ogni quarto. Un ritardo appena percettibile.
Quel suo “tirare indietro”, le prime sere, mi dava un senso di estraniazione, quasi di fastidio. Da ex batterista sentivo quasi il desiderio di entrare nel locale e invitare il “collega” a tenere il tempo in maniera regolare, a non rallentarlo.
Poi, invece, sera dopo sera, mi sono affezionato a quel piccolo difetto. Ho imparato ad assecondarlo e, a poco a poco, ho sentito che, a forza di ritardare il colpo sul rullante, anche il tempo reale intorno a me tendeva a rallentare e a dilatarsi. Anche i miei passi, che sembravano eseguire una danza sincopata.
Forse, un tango.
Tutte le sere, ormai, mentre ascolto la musica, assaporo il fresco della notte e seguo con lo sguardo l’andare scodinzolante dei miei cani. Tutto appare più lento. Rallentano le auto di passaggio, come frenate dal ritmo del batterista impreciso. Si placa il vento, quando c’è.
E tutto, intorno, sembra più armonico.
Camminando al ritmo della musica rallentata, ho notato che oltre il giardino di una piccola casa in mattoni rossi, c’è un vecchio che si mette seduto insieme a due gatti a fumare e ad ascoltare la musica. Dietro le sue spalle, una ginestra troneggia davanti all’entrata di casa. Tra aprile e maggio fiorisce di giallo e profuma di buono.
Da quando l’ho notato, il vecchio mi fa un cenno di saluto e io rispondo sollevando una mano.
Ci sorridiamo, mentre ascoltiamo la stessa musica.
I suoi gatti miagolano e i miei cani hanno imparato a non abbaiare verso di loro.
Amo pensare che sia tutto merito di un batterista che rallenta il tempo.