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di Valeria Ballarati

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La società dell'etica terapeutica

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Ma davvero siamo così vulnerabili che di fronte a ogni incertezza della nostra vita abbiamo bisogno di un' assistenza psicologica?

Non è che si va diffondendo anche da noi, come è già diffusa in America, un'etica terapeutica per cui basta che un bambino sia un po' vivace e turbolento che subito viene etichettato come affetto da un "disturbo da deficit di attenzione con iperattività"? Che dire poi degli studenti, che si apprestano a fare l'esame di maturità, che si definiscono "stressati" per aver studiato durante l' anno con una media di un' ora al giorno, e intorno ai quali si affollano i consigli degli psicologi, quando non addirittura quelli dei dietologi e dei medici? Che significa mettere in guardia le donne in procinto di partorire dalla "depressione post partum" iscrivendo preventivamente quel fenomeno naturale che è la generazione di un figlio in uno scenario al confine con la patologia? Davvero i cassaintegrati e i licenzianti hanno bisogno di un' assistenza psicologica per evitare drammi familiari, e non invece di un nuovo posto di lavoro?

Che cosa significa questo continuo ricorso al termine "sindrome" da "ansia generalizzata" per dire che uno è preoccupato, da "ansia sociale" per dire che uno è timido, da "fobia sociale" per dire che uno è molto riservato, da "libera ansia fluttuante" per chi non sa di che cosa si preoccupa?


Dai risultati di una ricerca risulta che, negli anni Settanta, la parola "sindrome" non compariva né sui giornali né nelle aule dei tribunali. Nel 1985 faceva la sua comparsa in 90 articoli, nel ' 93 in 1.000 e nel 2003 in 8.000 articoli di riviste e periodici. Per non parlare poi della parola "autostima", sconosciuta negli anni Settanta e oggi diffusissima nei media, a scuola, nei servizi sanitari, sul posto di lavoro e nel linguaggio quotidiano.
Dalla mancanza di autostima oggi si fanno dipendere i successi scolatici, demotivazioni in campo professionale, depressione in ambito familiare, devianza giovanile nei tortuosi percorsi dell' alcol e della droga, condotte suicidali. Infine il "trauma", che non è più considerato come una giusta e fisiologica reazione emotiva a un evento doloroso o sconcertante, ma come il generatore di un progressivo disadattamento alla vita, tale da condizionarla per tutto il suo corso, e quindi bisognoso di assistenza terapeutica.

Ma che cosa c'è sotto questo cambiamento linguistico, per cui esperienze fino a ieri ritenute normali, oggi vengono rubricate tra le sindromi psicologiche?
A cosa mira questa invasione della psicologia nella vita quotidiana, se non a creare in noi tutti un senso di vulnerabilità e quindi un bisogno di protezione, di tutela, quando non addirittura di cura?
A queste domande dà una risposta Frank Furedi, sociologo ungherese che insegna all' università di Kent a Canterbury, autore di un libro: Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (Feltrinelli, pagg. 294, euro 25) dove si sostiene che la patologizzazione di esperienze umane fino a ieri ritenute normali risponde all' esigenza di omologare gli individui non solo nel loro modo di "pensare" (a questo ha già provveduto il "pensiero unico" per cui, come già ammoniva Nietzsche: "Chi pensa diversamente, va spontaneamente in manicomio"), ma soprattutto nel loro modo di "sentire". Allo scopo vengono solitamente impiegati i mezzi di comunicazione che, dalla televisione ai giornali, con sempre più insistenza irrompono con indiscrezione nella parte discreta dell' individuo per ottenere non solo attraverso test, questionari, campionature, statistiche, sondaggi d' opinione, indagini di mercato, ma anche e soprattutto con intime confessioni, emozioni in diretta, storie d'amore, trivellazioni di vite private, che sia lo stesso individuo a consegnare la sua interiorità, la sua parte discreta, rendendo pubblici i suoi sentimenti, le sue emozioni, le sue sensazioni, secondo quei tracciati di spudoratezza che vengono acclamati come espressioni di sincerità, perché in fondo: "Non si ha nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi".

Comportandoci in questo modo ognuno di noi dà un ottimo esempio di quell' omologazione dell' intimo a cui tendono tutte le società conformiste che, interessate a che l' individuo non abbia più segreti e al limite neppure più un' interiorità, alimentano il proliferare incontrollato di interviste, pubbliche confessioni, rivelazioni dell' intimità, come è facile vedere in numerose trasmissioni televisive particolarmente seguite, dove l' invito è quello di collaborare attivamente e con gioia alla pubblicizzazione dei propri sentimenti e della propria interiorità, perché il non farlo sarebbe un sintomo di "insincerità", se non addirittura, e qui anche gli psicologi danno una mano, di "introversione", di "chiusura in se stessi", quindi di "inibizione" se non di "repressione". E inibizione e repressione, recitano i manuali di psicologia, sono sintomi di un "adattamento sociale frustrato", quindi di una socializzazione fallita. Vedete dove si può arrivare avviando una sequenza un po' disinvolta di sillogismi? Questo significa: "Non aver nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi".
Significa che le istanze del conformismo e dell'omologazione lavorano per portare alla luce ogni segreto, per rendere visibile ciascuno a ciascuno, per togliere di mezzo ogni interiorità come un impedimento, ogni riservatezza come un tradimento, per apprezzare ogni volontaria esibizione di sé come fatto di lealtà se non addirittura di salute psichica. E tutto ciò, anche se non ci pensiamo, approda a un solo effetto: attuare l' omologazione della società fin nell' intimità dei singoli individui e portare a compimento il conformismo.

Per chi proprio non riesce vengono in soccorso quelle che possiamo chiamare le "psicologie dell'adattamento" il cui implicito invito è di essere sempre meno se stessi e sempre più congruenti al modo conforme di vivere. Non diversamente si spiega il declino della psicoanalisi come indagine sul proprio profondo, e il successo del cognitivismo e del comportamentismo.
Il primo per aggiustare le proprie idee e ridurre le proprie dissonanze cognitive in modo da armonizzarle all' ordinamento funzionale del mondo; il secondo per adeguare le proprie condotte, indipendentemente dai propri sentimenti e dalle proprie idee che, se difformi, sono tollerati solo se coltivati come tratto originale della propria identità, purché non abbiano ricadute pubbliche. Si viene così a creare quella situazione paradossale in cui l' autenticità, l' esser se stesso, il conoscere se stesso, che l' antico oracolo di Delfi indicava come la via della salute dell' anima, diventa nelle società conformiste e omologate qualcosa di patologico, come può esserlo l' esser centrati su di sé (self-centred), la scarsa capacità di adattamento (poor adaptation), il complesso di inferiorità (inferiority complex).
Quest'ultima patologia lascia intendere che è inferiore chi non è adattato, e quindi che "essere se stesso" e non rinunciare alla specificità della propria identità è una patologia. E in tutto ciò c' è anche del vero, nel senso che sia il cognitivismo sia il comportamentismo, in quanto "psicologia del conformismo", assumono come ideale di salute proprio quell' esser conformi che, da un punto di vista esistenziale, è invece il tratto tipico della malattia.
Dal canto loro i singoli individui, interiorizzando i modelli indicati dal cognitivismo e dal comportamentismo, respingono qualsiasi processo individuativo che risulti non funzionale alla società omologata.

Si perviene così a quella che già Freud chiamava: "La miseria psicologica di massa", i cui tratti sono così descritti: "Oltre agli obblighi concernenti la restrizione pulsionale, ci sovrasta il pericolo di una condizione che potremmo definire la miseria psicologica di massa. Questo pericolo incombe maggiormente dove il legame sociale è stabilito soprattutto attraverso l'identificazione reciproca dei vari membri. La presente condizione della civiltà americana potrebbe offrire una buona opportunità per studiare questo temuto male della civiltà. Ma evito la tentazione di addentrarmi nella critica di tale civiltà. Non voglio destare l'impressione che io stesso ami servirmi di metodi americani".
Di metodi americani si serve invece abbondantemente Frank Furedi per concludere che l'imperativo terapeutico che massicciamente va diffondendosi in questa società ha lo scopo di promuovere non tanto l' autorealizzazione, quanto l'autolimitazione degli individui che, una volta persuasi di avere un sé fragile e debole, saranno loro stessi a chiedere non solo un ricorso alle pratiche terapeutiche, ma addirittura la gestione della loro esistenza, che è quanto di più desiderabile possa esistere per il potere.
E qui non si fatica a intravedere le potenziali implicazioni autoritarie a cui inevitabilmente porta la diffusione generalizzata dell'etica terapeutica, che è la versione secolarizzata dell'etica della salvezza, con cui le religioni hanno sempre tenuto gli uomini sotto tutela.