Si sveglia dal coma che tutti, tranne la mamma, dicevano irreversibile
Quel modo di guardare le cose (di certe madri)
A volte noi donne, mamme in ispecie, diventiamo famose per il nostro vizio di ingigantire ed esasperare piccole cose, cose quasi da nulla che altri direbbero di trascurare del tutto.
Eppure in questa cifra, che si impone anche quando non dovrebbe, è nascosto un talento formidabile.
Chi altri, se non la mamma di questo ragazzo in coma da più di due anni, avrebbe saputo attaccarsi ai minimi movimenti di un dito della sola mano sinistra? Solo Viviana, la mamma che ora ha 56 anni, ci ha creduto e ha agito, ostinatamente, di conseguenza.
(Pensando a questa storia, dolorosa e drammatica ma non tragica, il pensiero e lo strazio vanno inevitabilmente a quel bambino inglese, Archie, in coma anche lui per strangolamento accidentale: anche la sua di mamma sentiva che le stringeva la mano; non è bastato a convincerli che non andava soppresso. E così è andata, nel suo ormai famigerato, agghiacciante “best interest”. Chissà quanti, come lui. In Italia, invece, possiamo ancora raccontare storie come quella di Christian, dove il dolore e la speranza non fanno a botte. Anche se l’accerchiamento è già cominciato)
Intendiamoci, non ha trovato indifferenza e trascuratezza, tra i medici; per lungo tempo intorno al suo Christian si sono avvicendati specialisti e terapeuti, i migliori. Il problema è quanto è lungo il tempo della speranza che la vita di un figlio reclama ed esige e quanto i protocolli, le risorse stanziate e il buon senso intendano per ora accordargliene.
La notte dell’incidente
Ho appreso questa magnifica storia, come molti lettori, dal quotidiano Avvenire; il pezzo, a firma di Lucia Bellaspiga,
«Se continui a non rispondere mi incavolo!», gli aveva scritto sul cellulare, ma Christian, 21 anni, restava in silenzio, «le sirene erano per lui…». In quel momento giaceva sull’asfalto e i medici cercavano di rianimarlo. Avvenire
Era il 3 luglio del 2016, era tardi e Christian Scaiola stava guidando il suo motorino con un amico a bordo: un’auto davanti a loro – c’era un amico a bordo con lui e non riporterà nemmeno un graffio- aveva fatto inversione all’improvviso: Christian sbatte la testa contro il veicolo, in avanti, e poi indietro, contro il casco dell’amico. Doppio, violentissimo trauma.
La notte non del tutto oscura del coma
Ed è lì che inizia il viaggio, terribile, oscuro e con un equipaggiamento minimo di speranza che però basterò a portarlo fino a qui: entra in stato di incoscienza o vegetativo, una definizione che spesso non dà ragione di quei segnali di minima coscienza che invece ci sono o possono manifestarsi anche dopo tanto tempo.
I medici che lo soccorrono fanno tutto il necessario, scrupolosamente: gli scoperchiano il cranio per permettere la decompressione dell’encefalo: ” l’intervento di craniectomia decompressiva può ridurre drasticamente la mortalità in circa il 50% dei pazienti con pressione intracranica >25 mmHg dopo la terapia medica convenzionale” si legge su QuotidianoSanità.
Cure e interventi in fase d’emergenza
Siamo al San Gerardo di Monza, in questa prima decisiva fase che però sembra farlo scivolare lentamente, ma inesorabilmente, verso uno stato irreversibile che avrebbe richiesto solo di gestirlo, mantenendone un certo accettabile benessere senza prospettive di miglioramento.
A Garbagnate Christian viene tracheotomizzato, le secrezioni aspirate di continuo, l’ossigeno rimane sempre attaccato.
La prima fase di riabilitazione
I neurologi, che ne vedono tanti di casi come questi, forse convinti dai grandi numeri (lo sanno come va a finire, di solito), non credono a ciò che la mamma racconta di vedere e sentire: mio figlio muove un dito quando gli stringo la mano, riferiva Viviana. Certo, le mamme si sa che non si arrendono tanto facilmente e vedono progressi e talenti ovunque, anche quando non sembra che non ci sia nulla.
Colpiscono, nelle parole della signora, la gratitudine e il riconoscimento della bontà delle cure specialistiche che il suo ragazzo riceve, non ha nulla da eccepire, senza di esse sarebbe morto sull’asfalto quella notte o poco dopo.
Il fatto è che lei sa, sapeva che non tutto era finito, non tutto ancora e ancora era stato tentato. Loro, forse, potevano anche arrendersi, ma lei no:
«A Garbagnate c’erano medici e fisiatri d’eccellenza, persone meravigliose – precisa lei – ma dopo sei mesi ci dissero che non c’era più nulla da fare e mio figlio fu trasferito al Palazzolo Don Gnocchi, nel nucleo per gli stati vegetativi. Era la rinuncia a qualsiasi miglioramento». Ibidem
Chi si arrende
Non è più considerato un paziente da riabilitare, solo da accompagnare, evitando che peggiori a precipizio. Rimarrà venti mesi nella struttura fuori Milano.
In Italia si calcola che siano circa 4000 le persone in stato vegetativo e tre volte tanto quelle in stato di minima coscienza. Un piccolo esercito solo apparentemente inerte.
I giorni di Christian sembrano sempre di più uno la replica dell’altro, a guardarli distrattamente; Viviana però è attenta, attentissima. E quelle caramelle alla gelatina un giorno sono proprio sparite…
Vuole portarselo via, in quella casa popolare senza ascensore. Le danno della pazza, pazza d’amore, certo, ma pur sempre fuori della realtà. Forse invece era la sola ad esserci entrata fino in fondo, in quella realtà, l’unica a partecipare a quel dialogo segreto e quasi impercettibile con quel ragazzo. La sola a credere che avrebbe potuto tornare da quell’altrove misterioso e lontano anche se non del tutto inaccessibile.
Christian era ancora scalottato, come dicono loro, metà testa era molle, e si nutriva con la Peg, direttamente col sondino nello stomaco. Io però non avevo mai smesso di sperare, anche perché quando gli avevano tolto il respiratore lui semplicemente aveva continuato a respirare da solo, per me era un buon segno». Poi era avvenuto un fatto straordinario, «mi sono accorta che si era mangiato le caramelle di gelatina alla frutta che tenevo sul tavolino al Palazzolo! Nessuno mi credeva, così di nascosto iniziai a dargli da mangiare qualcosa per bocca». Ibidem
E chi no
Ottiene una casa popolare con ascensore dal Comune di Rho (chissà con quali e quante peripezie burocratiche); la calotta cranica torna al suo posto. Per mamma Viviana era quanto bastava per portarselo a casa e cominciare, di nuovo. Perché è questo che fa, da quando ha avuto l’incidente: ricomincia, passa da inizio a inizio, di tappa in tappa, da un piccolo trascurabile traguardo a un altro. E’ questo il punto: non trascurare nulla. Immagino, però, la fatica immane e la forza da attingere chissà dove per non trascurare del tutto nemmeno sé stessa.
Tornare a casa non è la fine dell’Odissea
I 17 dicembre del 2018, due anni e mezzo dopo l’incidente, sono di nuovo a casa insieme.
«Non era come lo vede oggi – sottolinea la madre –, era assente, non parlava da anni, faceva solo versi e movimenti inconsulti, pesava 45 chili. Ma invece di nutrirlo con la Peg gli frullavo il cibo e dopo qualche tempo non l’ho più nemmeno frullato, ormai mangiava di tutto… oggi pesa 80 chili e solo con i liquidi fatica ancora a deglutire, così beve con la cannuccia». Christian alza l’indice e parla, lentamente (ogni parola richiede impegno): «I miei piatti preferiti sono la pizza e i gamberoni alla piastra, poi le cotolette e la pasta al forno». Ibidem
Non sono abbandonati a sé stessi dai servizi e dalla sanità, ricevono dalla Regione fisioterapia, psicologo, logopedista e neuropsicomotricista; ma ancora non basta (come lo sanno, lo sappiamo – i genitori di figli con disabilità gravissima!).
L‘osteopata se lo paga lei, che ha anche lasciato il lavoro fuori casa per fare quello più impegnativo con suo figlio: non era un vezzo, l’osteopatia, racconta Viviana, gli ha sbloccato le corde vocali e la masticazione, il che significa che lo ha aiutato a ricominciare a parlare e a mangiare.
Non ha nessuna acrimonia, quando racconta, è consapevole anche del fatto che nulla era scontato, che anche al suo Christian poteva toccare di proseguire il viaggio dell’esistenza in quello strano tunnel da cui solo in pochi sbucano.
Solo due, nel reparto dove era ricoverato il figlio. Non importa, se ha senso l’espressione “vale la pena” è in casi come questo.
Anche perché non so se sarebbe d’accordo, lei, nel sentirsi chiamare eroica, speciale, super: è semplicemente, al costo che la cosa richiedeva, rimasta e sta dando quello che può, con intelligenza, con gli aiuti dei professionisti (perché una mamma è attenta, sensibile, presente, ingegnosa ma non ha lauree ad honorem in fisioterapia, logopedia, psicologia, neuro riabilitazione). Ci ha provato, dice lei, ecco tutto.
E quando Christian ha ripreso a parlare ha detto prima di tutto “Mamma”, come quando era piccolo. Se non è rinascita questa.
Per questo non c’è da attardarsi in considerazioni poetiche: i lavori sono perennemente in corso, come si conviene ad ogni vita, che, se non cresce, muore.
Commento:
Ho lasciato l'esame di Bioetica per questo: ne parlano in un linguaggio che non è il mio. Un linguaggio che mi sconvolge per la sua materialità. Questo articolo vien fatto perché la chiesa è di parte, ma ciò non toglie verità indiscutibili: non si può abbandonare la speranza - non é umano - né lasciare a un giudice la decisione di spegnere la macchina da cui dipende la vita di un proprio caro (è un estraneo, come può decidere?) e questa storia ne è la prova. Non è nemmeno un primo caso, unico e singolo.
Penso che voler normare vita e morte sia un errore: la giurisprudenza non nasce per questo ma per dare regole ai rapporti tra viventi. Del resto, di tutto il resto, sono convinta non ne sappiano niente e procedano per tentativi, perché son tutte situazioni particolari, tutti "stati di eccezione" laddove le le norme si occupano unicamente della "media omogenea" dei comportamenti ... Insomma, é sfera privata, non "pubblica".
Lo stato/la scienza/la medicina/gli stakeholders dovrebbero tutti smetterla con le ingerenze in questi due campi specifici, e fare un passo indietro: cioè, legittimare le sempre nuove pratiche, metterle a disposizione, ma poi lasciare che a decidere siano congiunti e famiglie.