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di Valeria Ballarati

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Noi rifugiati, l'incontro di Aprile in Sapienza

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Noi rifugiati - Hannah Arendt - copertina.

Nel mese di aprile, in occasione della riedizione del saggio di Hannah Arendt Noi rifugiati a cura dalla Prof.ssa Donatella Di Cesare, si è tenuto al Dipartimento di Filosofia di Villa Mirafiori un bell’incontro. Era stato organizzato dalla Prof.ssa Di Cesare con il contributo del Prof. Mariano Croce e della Prof.ssa Orietta Ombrosi.  L’aula non era particolarmente grande né gremita, ma l’argomento era importante: i rifugiati e la sensazione di mancanza di mondo, l’acosmia.

Ma chi sono i rifugiati? Che tipo di mancanza è quella riferita? Ci sono forse analogie con altri tipi di situazioni?

Hannah Arendt, una delle filosofe più rappresentative del XX secolo, parlava nel libro della sua esperienza; costretta a fuggire nel 1941 per salvarsi la vita dal nazismo, era migrata negli Stati Uniti. L’evento veniva quel giorno ricollegato ai Diritti umani - di cui la filosofa non aveva dato una definizione - e la Prof.ssa Di Cesare riteneva che i Diritti umani mancanti fossero qualcosa di innato, che s’inscriveva nella persona.




Arendt parlava della mancanza di mondo a partire dal suo vissuto, che per ogni ebreo sembra essere una caratteristica storica dovuta agli avvenimenti che hanno contraddistinto il popolo eletto da Dio sin dall’antichità,  mancanza della quale hanno risentito particolarmente in ogni epoca. Mentre ascoltavo riflettevo sul fenomeno e lo trovavo presente a ogni latitudine. Altri gruppi ritenuti minoranze non riconosciute hanno ricevuto nel tempo un pari trattamento, in più luoghi sulla terra: etnia o religione non fa differenza quando ci si sente “senza mondo”, è un sentire di certo presente nei cuori di molti cittadini del mondo in ogni continente. Curdi, serbi, mussulmani bosniaci, Rohingya, yazidi, uiguri sono i popoli più perseguitati. Arendt ha il merito di esser riuscita a parlarne, a narrarlo - come era il suo personale modo di elaborare - accendendo un riflettore sul problema. Nel suo Le origini del Totalitarismo esponeva cos’era questa schiuma della terra che origina in chi entra a far parte di quell’acosmismo di cui ha fatto esperienza. Oggi il fenomeno si è ancor più ampliato, vediamo la schiuma del mare, migranti che continuano a morire negli abissi durante il passaggio per arrivare in terraferma.

I Professori si chiedevano cos’è il mondo.

Il mondo è quell’esserci personalmente ma anche ‘insieme’ e si parlava di cosa viene a mancare nell’acosmia, nell’avvertire l’assenza, la perdita di mondo. Quando una persona si sente al di fuori della sfera politica perché ha perso il Paese di nascita, la famiglia, gli affetti etc. diventa senza una terra d’origine, e senza il suo paese natale forse ciò che gli manca maggiormente non è tanto il non essere riconosciuto politicamente – certo che i Diritti civili sono importanti, e quelli umani importantissimi – ma può avvertire una mancanza di riconoscimento da parte dell’altro: la mancanza dei gesti. Se un individuo resta senza diritti riconosciuti ma ha attorno a sé una comunità che gli riconosce il suo Essere probabilmente avrebbe modo di sentirsi meno solo, almeno non così senza mondo, e forse non perderebbe la speranza (la più grave perdita in ciascuno). Arendt stessa in questa condizione per un certo periodo, ammise di aver pensato al suicidio: lei, che era di temperamento così forte!

A distanza di giorni ripensando all’incontro ho trasferito il modello di acosmia nel più piccolo mondo della città universitaria che conosciamo e frequentiamo (personalmente solo da poco), per cercare una chiave di lettura ai suicidi nell’ambiente universitario, avvenimenti che mi lasciano senza respiro essendo madre di coetanea.

Alcuni di questi ragazzi lasciano piccoli, ultimi biglietti parlando di inadeguatezza e profitto.

In qualche modo si sono sentiti rifiutati e mi sono chiesta se non fossero nella stessa condizione di chi non ha più un mondo di cui far parte. Per non riuscire più a vedere alcuna luce e perdere così la speranza, devono aver vissuto l’esperienza dei rifugiati, estirpati alla vita e all’ambiente amato, catapultati in una dimensione di isolamento e vuoto che non può appartenere a nessuno. Un senso di SOLITUDINE che è male diffuso nella società dei consumi e del profitto (non solo economico) a tutti i costi. La “lebbra dell’Occidente” é un male ancora più male, perché ti fa sentire solo e abbandonato nel dolore, una situazione atroce che può in effetti portare sull’orlo dell'abisso.

Questi studenti universitari devono essersi sentiti non più dentro l’università, né fuori nella vita di tutti i giorni; dentro non avendo il profitto auspicato, fuori perché ancora il mondo del lavoro non gli apparteneva. Se il loro desiderio era studiare ma non riuscivano a tenere il ritmo degli esami, nel tempo avranno cominciato a rimuginare di valer poco, meno d’altri, e all’estremo punto della disperazione hanno ritenuto la propria vita inutile, come alcuni hanno lasciato scritto. Ma il valore di una vita non è legato al profitto ma al dedicarsi ai desideri nei propri tempi e modi; non c’è un unico giusto modo per fare le cose, e non c’è proprio niente di sbagliato nel non farle come s’aspettano altri. Certo, la passione è indispensabile. Ma la passione è collegata proprio a quel che ci piace fare.

Alcuni Dipartimenti universitari sono diventati troppo competitivi.

Questa società che spinge al merito, all’eccellenza e al produrre, se da una parte pare giusto dall’altra esclude chi non soddisfa lo standard richiesto. Il meccanismo potrebbe essere banale: venendo a mancare il modello sociale a cui si è adusati, automaticamente chi non è all’altezza non ne fa più parte e si scopre inadatto, solo, senza più mondo. Piombando in una sorta di disagio per essere diverso dal modello, s’innescano paure e bugie. Chi resta indietro con gli esami non lo dice subito alla famiglia, inizialmente pensa di riuscire a recuperare, salvo poi trovarsi a un punto dove le cose sono andate troppo oltre e non sa più come uscirne. Tornare indietro non si può e tornare a casa è troppa vergogna.

Del resto, lo standard di esami annui per rimanere “in corso” non è facilissimo da rispettare.

Se togliamo dalla giornata dello studente il tempo dei bisogni fisici (nutrirsi, vestirsi, riposo e cura di sé), dei trasporti per raggiungere l’ateneo, delle ore dei corsi con la sistemazione appunti, e aggiungiamo il tempo necessario per studiare e sostenere gli esami, non è facile tenere il ritmo stabilito per rimanere in corso; per riuscirci è necessario aumentare significativamente la quota di tempo dedicato allo studio sottraendola altrove nell’arco della giornata, e sempreché ogni esame vada bene al primo appello. È certo che non tutti riescono - come le statistiche dimostrano - ed ecco dove sorge il problema dell’inadeguatezza rispetto al profitto.

I Professori si chiedevano come evitare l’acosmismo, anche perché Arendt non dava una soluzione sul tipo di società e comunità di cui c’era bisogno: provavano alcune ipotesi.

Mi sono convinta che più di tutto possa mancare la concretezza di un gesto. I semplici gesti tra persone, per i rifugiati come per gli studenti. Quando le istituzioni latitano, le persone ci sono ancora. Se ciò che viene a mancare nel “senza mondo” è principalmente uno sguardo attento, il curarsi dell’altro ristabilisce il mondo. Dove non è prevista uscita dallo schema sociale diventa necessaria la semplice solidarietà umana, tra pari che si riconoscono, e sarà grazie a questo che sia i rifugiati che gli studenti potrebbero ritrovare la loro dimensione, che è di nuovo il mondo, un mondo nel quale è bello stare.

V.

Nota: ho scritto questo articolo per il giornalino degli studenti di Filosofia, a Villa Mirafiori, Roma.