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di Valeria Ballarati

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Un diverso modo di raccontare

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 Un Risorgimento di eroi inquieti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi affascinano le contraddizioni dei protagonisti di quest'epoca.

Quando Mario Martone mi parla del film (Noi credevamo n.d.r.) al quale sta lavorando manca ancora un anno o due alle celebrazioni per il centocinquatesimo dell'Unità d'Italia. Dice che nel suo film non si occuperà di un evento importante come la Repubblica Romana del 1849 ma che sarebbe una storia adatta a me. Un po' come ho fatto in quella dell'eccidio alle Fosse Ardeatine, Radio Clandestina, che debuttò undici anni fa al Teatro di Roma quando era diretto da lui e che nacque da una sua proposta.

A me il Risorgimento non interessa e mi fanno tristezza le celebrazioni con le bandiere e le corone dei fiori. Né mi interessa andare alla ricerca di anniversari per pescare finanziamenti. Gli americani infilano la bandiera da tutte le parti e a vederli un po' da lontano pare proprio che ci credano. Loro ne hanno bisogno per cancellare il senso di colpa per un genocidio che è costato un numero incalcolabile di nativi e per inventarsi un baraccone nel quale si finga di essere tutti fratelli, ex-italiani immigrati con gli ex-schiavi deportati, ex-ebrei-sopravvissuti con ex-galeotti inglesi, eccetera. Ma per noi, che abbiamo imparato a parlare l'italiano perché ci siamo comprati la televisione a rate, la bandiera è un simbolo che sventola allo stadio, sui tetti delle case in costruzione e, ultimamente, sui soldati rimpatriati morti.

Ascolto le storie di Mario Martone, sembrano interessanti ma io penso che mi interesserò di qualcos'altro e che il 2011 non lo celebrerò col tricolore e quartetto Mazzini-Garibaldi-Cavour-Vittorio Emanuele.

Poi mi sono messo a leggere con un po' di curiosità e il primo pregiudizio saltato è proprio quello del quartetto. Garibaldi era un eroe quando combatteva per i Savoia a Marsala o a Bezzecca ma diventata un terrorista quando arrivava a Mentana o in Aspromonte (dove furono gli «italiani» a sparargli ad una gamba). Cavour si fece notare quando un pezzo consistente di Risorgimento rivoluzionario e insurrezionalista aveva già segnato un ventennio di storia e fu un antimazziniano e monarchico convinto. Quanto poco fosse rivoluzionario Vittorio Emanuele lo si può immaginare dal fatto che portava la corona in testa. Mazzini, invece, era considerato un terrorista non solo dagli austriaci ma, soprattutto, dai governanti italiani. Nel 1870, quando i bersaglieri passavano attraverso la breccia di Porta Pia, lui aveva tentato l'ennesima insurrezione (stavolta contro lo Stato Italiano) e se ne stava in galera.

Accanto a queste contraddizioni che poco si conciliano con l'infinita parata di monumenti che li raffigura insieme, che li accomuna nel marmo e nel bronzo, che in tanti anni di retorica gli ha attribuito scuole, strade e piazze, ci sono altri personaggi non meno interessanti. Penso per esempio a Felice Orsini e Carlo Pisacane, morti a distanza di un anno, il primo ghigliottinato e il secondo fatto a pezzi dai contadini di Sanza. Orsini perse la testa per aver lanciato un po' di bombe contro Luigi Bonaparte, quel Presidente che, nonostante fosse a capo della Repubblica Francese, fu l'artefice della distruzione della Repubblica Romana e del ritorno di sua maestà Pio IV sul trono papale. Nel '49 parve strano che proprio un repubblicano francese fosse il primo nemico dei repubblicani romani ma, dopo un paio d'anni, Bonaparte chiarì il suo intento e si incoronò Napoleone III. Ecco perché Orsini cercò di farlo saltare in aria.

E Pisacane? Basti dire che era ateo, considerava democratico uno stato nel quale la democrazia fosse senza deleghe e l'uguaglianza non potesse essere disgiunta da quella economica perché in un paese libero non ci può essere «gente tanto ricca da potere comprare altrui, né tanto povera da doversi vendere». Scrive che il rivoluzionario è come il minatore. Che basta «portare la scintilla dove già c'è la polvere pronta a prendere fuoco». Non a caso è considerato uno dei padri dell'anarchia e, in un recente libro di Pino Casamassima, si dice che Margherita Cagol aveva pensato al nome «Brigata Pisacane» per quelle che sarebbero state poi chiamate BR.
 
Credo che la scrittura, per essere letteraria e dunque anche teatrale, possa (debba?) essere contraddittoria più che provocatoria perché la provocazione ribalta un punto di vista, mentre la contraddizione lo smonta, lo moltiplica, lo problematizza e lo rende umano. Insomma, mi pareva che in queste storie lontane ci fossero abbastanza contraddizioni e umanità da poterci scrivere un racconto che debutta come spettacolo all'Auditorium di Roma col titolo «Pro Patria».

Ascanio Celestini - Fonte

 

Nota: l'ho visto il film, ma non sono stata capace di apprezzarlo.