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di Valeria Ballarati

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Io, diventato disabile due mesi fa

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Quando si diventa disabili, come mi è successo un paio di mesi fa dopo l’amputazione del piede sinistro a causa di un’infezione mal curata da un primario romano del Policlinico Tor Vergata, la prima reazione istintiva è la rabbia. Ma presto ti accorgi, anche grazie ai consigli del nuovo medico curante, il professor Luca Dalla Paola dell’ospedale Maria Cecilia di Cotignola, in provincia di Ravenna, che c’è un antidoto ben più efficace: la forza della volontà.

OSTACOLI MAI VISTI PRIMA - Solo così puoi sopravvivere ai mille ostacoli che si frappongono ogni giorno alla vita in carrozzella, specie in una città come Roma: dai passi carrabili ostruiti ai parcheggi per disabili occupati da abusivi, dai marciapiedi invasi da tavolini e sedie fino ai patiti dei cellulari che ti travolgono mentre scrivono sms. I paradossi che ti capitano sembrano assurdi e inverosimili finché non li vivi in prima persona. Come quando l’Inps mi convoca per la prima visita di controllo sull’invalidità civile, in pieno agosto, con un caldo torrido da deserto del Sahara.

All’ingresso dell’edificio, in via San Martino della Battaglia, mi accorgo che l’ascensore per il secondo piano, dove sono atteso dalla commissione medica, è guasto da mesi e non ci sono i soldi per ripararlo. Ti verrebbe solo da imprecare. E invece devi morderti la lingua e aspettare oltre due ore, in un androne sporco e puzzolente, che le tre dottoresse decidano di scendere e di constatare l’amputazione mentre nella tua mente scorrono le immagini di una vita vissuta intensamente, fra guerre, terremoti, stragi.

L’UMILIANTE VISITA D’INVALIDITA’ – Pensi allo stipendio faraonico e ai mille incarichi del presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua e ti viene da sorridere quando una delle dottoresse, dopo avermi chiesto che lavoro svolgessi prima della malattia, mi dice non so con quanto sarcasmo: «Ah, ma per voi giornalisti non ci sono problemi per questo tipo di invalidità: potete sempre continuare a scrivere al computer». Come se fosse inutile e banale andare in giro a testimoniare gli avvenimenti.

L’INCONTRO CON ANGELO RIZZOLI - «Benvenuto nel club dei disabili», mi aveva salutato amaramente Angelo Rizzoli, uno dei primi amici che ho incontrato quando ho deciso di uscire dall’isolamento. «Adesso ti accorgerai di quanto sia incivile questo Paese rispetto agli altri dove hai vissuto, come gli Stati Uniti». Non sbagliava. Pure, per andare in un ristorante, non devi scegliere la qualità del cibo, ma la possibilità reale di potervi accedere. C’è anche chi ti imbroglia al telefono, come mi è successo in un piccolo paese toscano del X secolo, San Sepolcro, al confine fra Toscana, Umbria e Marche. Ti dicono che l’ingresso è al piano terra e invece trovi una scalinata ripidissima e senza pedana. Se poi hai bisogno di un albergo devi armarti di pazienza e fare dieci, venti telefonate per trovare quello che ha una camera per disabili.

LODEVOLI ECCEZIONI – A fronte di tante frustrazioni ci sono le eccezioni lodevoli. Come lo stabilimento balneare dell’Ultima Spiaggia, a Capalbio, dove tutto è predisposto per l’accesso con la sedia a rotelle e il personale si prodiga per farti sentire a tuo agio. Scorrono davanti a me tanti flash. Un bambino mi guarda stupito: «Sei come quell’uccello con una sola zampa» pensando forse alla gru dei simboli araldici. Mi viene a far visita un giorno un caro amico e compagno di avventure, Staffan de Mistura, già inviato dell’Onu nelle zone più calde del mondo e oggi sottosegretario al ministero degli Esteri. Mi ricorda il centro protesi di Kabul, diretto dall’eroico Alberto Cairo, che anch’io conosco bene. «Lo sai che un mese fa sono ritornato lì e Cairo mi ha sottoposto a una specie di quiz per indovinare quale gamba di uno dei suoi 250 impiegati – tutti disabili- avesse la protesi. Ho tirato a indovinare e ho sbagliato». Mi prende la mano, me la mette sul cuore e mi dice: «Devi avere solo pazienza. Con la protesi ritornerai a viaggiare e a raccontare quello che succede nel mondo. Potrai andare anche alle Olimpiadi».

IL LIBRO DI CANNAVO’ – C’è un libro molto bello che ho letto in queste settimane. L’ha scritto il rimpianto direttore della Gazzetta dello Sport Candido Cannavò. S’intitola: “E li chiamano disabili”. Storie di vite difficili coraggiose stupende. La vera domanda da porsi è questa, scrive Cannavò: «Che cosa può fare un disabile per la collettività in cui vive?». Non viceversa. Da questo rivoluzionario cambio di cultura è nato il mio primo impegno. L’iniziativa me l’ha segnalata in un messaggio di solidarietà un altro giornalista, Salvatore Giannella. Sul suo sito, GiannellaChannel, fa campeggiare un orologio digitale con i giorni, le ore e i minuti, che mancano alla scadenza del 31 dicembre 2013 quando l’Italia rischierà di perdere 45 miliardi di euro di fondi europei destinati al nostro Paese. In quel mare di soldi c’è una bella cifra di contributi a favore dei disabili. Ho promesso che attiverò tutte le mie amicizie a Bruxelles, a cominciare dal Rappresentante permanente dell’Italia presso l’Ue, Ferdinando Nelli Feroci, per capire quali istituzioni pubbliche e private possano utilizzarli e soprattutto con quali progetti.

Pino Buongiorno