di Chris Hedges per scheerpost.com – Traduzione a cura di Old Hunter
Quello che segue è il discorso principale che ho tenuto il 1° novembre alla conferenza, La fine dell’impero, presso l’Università della California di Santa Barbara [prima delle elezioni negli Stati Uniti]. La conferenza è stata organizzata dal professor Butch Ware, che era anche il candidato vicepresidente del Partito Verde. Gli amministratori dell’università hanno vietato la pubblicità anticipata del discorso sugli account dei social media dell’università.
https://www.youtube.com/watch?v=LliyK19WvM4
Trascrizione
Lo sterminio funziona. All’inizio. Questa è la terribile lezione della storia. Se Israele non viene fermato, e nessuna potenza esterna sembra disposta a fermare il genocidio a Gaza o la distruzione del Libano, raggiungerà i suoi obiettivi di spopolamento e annessione della parte settentrionale di Gaza. Trasformerà la parte meridionale di Gaza in un ossario dove i palestinesi sono bruciati vivi, decimati dalle bombe e muoiono per fame e malattie infettive, finché non saranno scacciate.
Raggiungerà il suo obiettivo di distruggere il Libano: 2,400 persone sono state ucciso e oltre 1.2 libanesi sono stati sfollati, nel tentativo di trasformarlo in uno stato fallito. Sta già riversando la sua furia genocida sulla Cisgiordania. E potrebbe presto realizzare il suo sogno a lungo accarezzato di costringere gli Stati Uniti a dichiarare guerra all’Iran. I leader israeliani stanno sbavando pubblicamente sulle proposte di assassinare il leader iraniano Ayatollah Ali Hosseini Khamenei e di effettuare attacchi aerei sulle installazioni nucleari e petrolifere dell’Iran.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo gabinetto, come quelli che guidano la politica mediorientale alla Casa Bianca — Antony Blinken, cresciuto in una famiglia fermamente sionista, Brett McGurk, Amos Hochstein, nato in Israele e che ha prestato servizio nell’esercito israeliano, e Jake Sullivan — sono veri credenti nella dottrina che la violenza può plasmare il mondo per adattarlo alla loro visione demente. Che questa dottrina sia stata un fallimento spettacolare nei territori occupati da Israele, e non abbia funzionato in Afghanistan, Iraq, Siria e Libia, e una generazione prima in Vietnam, non li scoraggia. Questa volta, ci assicurano, avrà successo.
Nel breve termine hanno ragione. Questa non è una buona notizia per i palestinesi o i libanesi. Gli Stati Uniti e Israele continueranno a usare il loro arsenale di armi industriali per uccidere un numero enorme di persone e trasformare le città in macerie. Ma nel lungo termine, questa violenza indiscriminata semina denti di drago. Crea avversari che, a volte una generazione dopo, superano in ferocia (lo chiamiamo terrorismo) ciò che è stato fatto a coloro che sono stati uccisi nella generazione precedente.
L’odio e la sete di vendetta, come ho imparato mentre seguivo la guerra nell’ex Jugoslavia, vengono tramandati come un elisir velenoso da una generazione all’altra. I nostri disastrosi interventi in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia e Yemen, insieme all’invasione israeliana del Libano nel 1982, che ha creato Hezbollah, avrebbe dovuto insegnarcelo.
Ma questa è una lezione che non verrà mai appresa.
Come poteva l’amministrazione Bush immaginare che sarebbe stata accolta come liberatrice in Iraq quando gli Stati Uniti avevano trascorso oltre un decennio a imporre sanzioni che avevano causato gravi carenze di cibo e medicine causando la morte di almeno un milione di iracheni, tra cui 500,000 bambini?
L’occupazione israeliana della Palestina e il bombardamento a tappeto del Libano nel 1982 furono il catalizzatore per l’attacco di Osama bin Laden alle Torri Gemelle di New York City nel 2001, insieme al sostegno degli Stati Uniti agli attacchi contro i musulmani in Somalia, Cecenia, Kashmir e nel sud delle Filippine, all’assistenza militare degli Stati Uniti a Israele e alle sanzioni all’Iraq.
Non vedo nulla che possa fermare Israele, soprattutto da quando la lobby israeliana ha comprato e pagato il Congresso e i due partiti al governo e ha intimidito i media e le università. Si possono fare soldi in guerra. Molti. E l’influenza dell’industria bellica, sostenuta da centinaia di milioni di dollari spesi in campagne politiche da parte dei sionisti, rappresenterà un ostacolo formidabile alla pace, per non parlare della sanità mentale.
Israele è stato avvelenato dalla psicosi della guerra permanente. È stato moralmente portato in bancarotta dalla santificazione della vittimizzazione, che usa per giustificare un’occupazione che è ancora più selvaggia di quella dell’apartheid in Sudafrica. La sua “democrazia” — che è sempre stata esclusivamente per gli ebrei — è stata dirottata da estremisti che stanno spingendo il paese verso il fascismo. I sostenitori dei diritti umani, intellettuali e giornalisti — israeliani e palestinesi — sono soggetti a una sorveglianza statale costante, arresti arbitrari e campagne diffamatorie gestite dal governo. Il suo sistema educativo, a partire dalla scuola primaria, è una macchina di indottrinamento per i militari. E l’avidità e la corruzione della sua venale élite politica ed economica hanno creato vaste opportunità e disparità di reddito, uno specchio del decadimento della democrazia americana, insieme a una cultura di razzismo anti-arabo e anti-nero.
Quando Israele riuscirà a decimare Gaza, (Israele sta già parlando di mesi di guerra in più) la sua facciata di civiltà, il suo presunto ostentato rispetto per lo stato di diritto e la democrazia, la sua storia mitica del coraggioso esercito israeliano e la nascita miracolosa della nazione ebraica (che ha venduto con successo al suo pubblico occidentale) giacciono in cumuli di cenere. Il capitale sociale di Israele sarà speso. Si rivelerà come il regime di apartheid orribile, repressivo e pieno di odio che è sempre stato, alienando le giovani generazioni di ebrei americani. Il suo patrono, gli Stati Uniti, man mano che le nuove generazioni saliranno al potere, prenderà le distanze da Israele. Il suo sostegno popolare verrà dai sionisti reazionari e dai fascisti cristianizzati d’America che vedono il dominio di Israele sull’antica terra biblica come un presagio della Seconda Venuta e nella sua sottomissione degli arabi un razzismo affine e una celebrazione della supremazia bianca.
Israele diventerà sinonimo delle sue vittime, come i turchi sono sinonimi degli armeni, i tedeschi dei namibiani e più tardi degli ebrei, e i serbi dei bosniaci. La vita culturale, artistica, giornalistica e intellettuale di Israele si atrofizzerà. Israele sarà una nazione stagnante dove i fanatici religiosi, i bigotti e gli estremisti ebrei che hanno preso il potere dominerà il discorso pubblico. Entrerà nel club dei regimi più dispotici del mondo.
I dispotismi possono esistere molto tempo dopo la loro scadenza. Ma sono terminali.
Le nazioni hanno bisogno di più della forza per sopravvivere. Hanno bisogno di una mistica. Questa mistica fornisce uno scopo, civiltà e persino nobiltà per ispirare i cittadini a sacrificarsi per la nazione. La mistica offre speranza per il futuro. Fornisce un significato. Fornisce un’identità nazionale. Quando le mistiche implodono, quando vengono smascherate come bugie, un fondamento centrale del potere statale crolla.
Tutto ciò che resta a Israele è una crescente ferocia, tra cui torture e violenza letale contro civili disarmati, che accelera il declino. L’esercito israeliano ha compiuto 93 massacri a Gaza nell’ultimo anno. Questa violenza all’ingrosso funziona nel breve termine, come è successo nella guerra condotta dai francesi in Algeria, nella Guerra sporca condotta dalla dittatura militare argentina, nell’occupazione britannica di India, Egitto, Kenya e Irlanda del Nord e nelle occupazioni americane di Vietnam, Iraq e Afghanistan. Ma nel lungo termine è suicida.
Il genocidio a Gaza ha trasformato i combattenti della resistenza di Hamas in eroi nel Sud del mondo. Israele ha ucciso centinaia di leader palestinesi, tra cui Yahya Sinwar. Ha assassinato il dottor Abdel Aziz al-Rantisi, uno dei fondatori di Hamas, che conoscevo, e Khalil al-Wazir, noto come Abu Jihad, che ha fondato l’OLP con Yasser Arafat, che anche io conoscevo. Ma l’umiliazione quotidiana, l’impoverimento forzato, la violenza indiscriminata, le lunghe pene detentive e la tortura sono un terreno fertile di addestramento per i leader della resistenza. Non mancano palestinesi radicalizzati che possono prendere il posto di Sinwar. La lunga lotta per la libertà dei palestinesi ha ribadito questo concetto più e più volte.
Correte, dicono gli israeliani ai palestinesi di Gaza, correte per salvarvi la vita. Correte da Rafah come siete scappati da Gaza City, come siete scappati da Jabalia, come siete scappati da Deir al-Balah, come siete scappati da Beit Hanoun, come siete scappati da Bani Suheila, come siete scappati da Khan Yunis. Correte o vi uccideremo. Sganceremo bombe GBU-39 sui vostri accampamenti di tende e li daremo alle fiamme. Vi spruzzeremo proiettili dai nostri droni equipaggiati con mitragliatrici. Vi martelleremo con artiglieria e proiettili di carri armati. Vi abbatteremo con i cecchini. Decimeremo le vostre tende, i vostri campi profughi, le vostre città e paesi, le vostre case, le vostre scuole, i vostri ospedali e i vostri impianti di depurazione delle acque. Faremo piovere morte dal cielo.
Correte per salvarvi la vita. Ancora e ancora e ancora. Raccogliete le poche cose che vi sono rimaste. Coperte. Un paio di pentole. Qualche vestito. Non ci importa quanto siate esausti, quanto abbiate fame, quanto siate terrorizzati, quanto siate malati, quanti anni abbiate o quanto siate giovani. Correte. Correte. Correte. E quando correrete terrorizzati in una parte di Gaza, vi faremo voltare e correre in un’altra. Intrappolati in un labirinto di morte. Avanti e indietro. Su e giù. Da una parte all’altra. Sette. Otto. Nove. Dieci volte. Ci prendiamo gioco di voi come topi in trappola. Poi vi deporteremo così non potrete mai più tornare. Oppure vi uccidiamo.
Lasciamo che il mondo denunci il nostro genocidio. Che ci importa? I miliardi di aiuti militari che sgorgano incontrollati dal nostro alleato americano. I jet da combattimento. I proiettili di artiglieria. I carri armati. Le bombe. Una scorta infinita. Uccidiamo bambini a migliaia. Uccidiamo donne e anziani a migliaia. I malati e i feriti, senza medicine e ospedali muoiono. Avveleniamo l’acqua. Impediamo vi giunga il cibo. Vi facciamo morire di fame. Abbiamo creato questo inferno. Siamo i padroni. La legge, il dovere, un codice di condotta non esistono per noi.
Ma prima giochiamo con voi. Vi umiliamo. Vi terrorizziamo. Ci crogioliamo nella vostra paura. Ci divertono i vostri patetici tentativi di sopravvivere. Non siete umani. Siete animali. Untermensch. Alimentiamo la nostra brama di dominio. Guardate i nostri post sui social media. Sono diventati virali. Uno mostra soldati che sorridono in una casa palestinese con i proprietari legati e bendati sullo sfondo. Noi saccheggiamo. Tappeti. Cosmetici. Motociclette. Gioielli. Orologi. Denaro. Oro. Antichità. Ci prendiamo gioco della vostra miseria. Festeggiamo la vostra morte. Celebriamo la nostra religione, la nostra nazione, la nostra identità, la nostra superiorità, negando e cancellando la vostra.
La depravazione è morale. L’atrocità è eroismo. Il genocidio è redenzione.
Questo è il gioco del terrore giocato da Israele a Gaza. È stato il gioco giocato durante la Guerra sporca in Argentina, che ho seguito come reporter, quando la giunta militare ha fatto “scomparire” 30.000 dei suoi cittadini. Gli “scomparsi” sono stati sottoposti a tortura (chi non può chiamare tortura ciò che sta accadendo ai palestinesi a Gaza?) e umiliati prima di essere assassinati. È stato il gioco giocato nei centri di tortura clandestini e nelle prigioni di cui ho parlato a El Salvador e in Iraq. È quello che ho visto nei campi di concentramento serbi in Bosnia.
Il giornalista israeliano Yinon Magal, nel programma “Hapatriotim” sul canale 14 di Israele, ha scherzato dicendo che la linea rossa di Joe Biden era l’uccisione di 30.000 palestinesi. Il cantante Kobi Peretz ha chiesto se quello fosse il numero di morti per un giorno. Il pubblico è esploso in applausi e risate.
Sappiamo qual è l’intento di Israele. Annientare i palestinesi nello stesso modo in cui gli Stati Uniti hanno annientato i nativi americani, gli australiani hanno annientato i popoli delle Prime Nazioni, i tedeschi hanno annientato gli Herero in Namibia, i turchi hanno annientato gli armeni e i nazisti hanno annientato gli ebrei. I dettagli sono diversi. L’obiettivo è lo stesso. Cancellazione.
Non possiamo appellarci all’ignoranza.
Ma è più facile fingere. Fingere che Israele consentirà gli aiuti umanitari. Fingere che ci sarà un cessate il fuoco permanente. Fingere che i palestinesi torneranno alle loro case distrutte a Gaza. Fingere che Gaza sarà ricostruita: gli ospedali, le università, le moschee, le case. Fingere che l’Autorità Nazionale Palestinese amministrerà Gaza. Fingere che ci sarà una soluzione a due stati. Fingere che non ci sarà alcun genocidio.
I decantati valori democratici, la moralità e il rispetto dei diritti umani, rivendicati da Israele e dagli Stati Uniti, sono sempre stati una bugia. Il vero credo è questo: abbiamo tutto e se provi a togliercelo ti uccideremo. Le persone di colore, soprattutto quando sono povere e vulnerabili, non contano. Le speranze, i sogni, la dignità e le aspirazioni alla libertà di coloro che sono fuori dall’impero sono inutili. Il dominio globale sarà sostenuto attraverso la violenza razzializzata.
Questa menzogna, che l’impero americano si basa sulla democrazia e sulla libertà, è una bugia che i palestinesi e quelli del Sud del mondo, così come i nativi americani e i neri e gli ispanici, per non parlare di quelli che vivono in Medio Oriente, conoscono da decenni. Ma è una bugia che ha ancora corso negli Stati Uniti e in Israele, una bugia usata per giustificare l’ingiustificabile.
Non fermeremo il genocidio di Israele perché noi, in quanto americani, siamo Israele, contagiati dalla stessa supremazia bianca e intossicati dal nostro dominio sulla ricchezza del mondo e dal potere di annientare gli altri con il nostro armamento avanzato.
Le forze di occupazione statunitensi in Iraq e Afghanistan, replicando quanto fatto in Vietnam, hanno deliberatamente mutilato, abusato, picchiato, torturato, violentato, ferito e ucciso centinaia di migliaia di civili disarmati, compresi bambini.
“Dopo la guerra”, scrive Nick Turse, “la maggior parte degli studiosi liquidò i resoconti dei crimini di guerra diffusi che ricorrono nelle pubblicazioni rivoluzionarie vietnamite e nella letteratura anti-guerra americana come semplice propaganda. Pochi storici accademici pensarono persino di citare tali fonti, e quasi nessuno lo fece in modo così esteso. Nel frattempo, My Lai è diventato il simbolo, e quindi ha cancellato, tutte le altre atrocità americane. Gli scaffali delle librerie sulla guerra del Vietnam sono ora pieni di storie di ampio respiro, studi sobri sulla diplomazia e le tattiche militari e memorie di combattimento raccontate dal punto di vista dei soldati. Seppellita negli archivi dimenticati del governo degli Stati Uniti, rinchiusa nei ricordi dei sopravvissuti alle atrocità, la vera guerra americana in Vietnam è praticamente scomparsa dalla coscienza pubblica”.
L’amnesia storica è una parte vitale delle campagne di sterminio una volta concluse, almeno per i vincitori. Ma per le vittime, il ricordo del genocidio, insieme al desiderio di vendetta, è una chiamata sacra. I vinti ricompaiono in modi che gli assassini genocidi non possono prevedere, alimentando nuovi conflitti e nuove animosità. L’eradicazione fisica di tutti i palestinesi, l’unico modo in cui funziona il genocidio, è un’impossibilità dato che sei milioni di palestinesi da soli vivono nella diaspora. E oltre cinque milioni vivono a Gaza e in Cisgiordania.
Il genocidio di Israele ha fatto infuriare 1,9 miliardi di musulmani in tutto il mondo, così come la maggior parte del Sud del mondo. Ha screditato e indebolito i regimi corrotti e fragili delle dittature e delle monarchie nel mondo arabo, che ospita 456 milioni di musulmani, che collaborano con gli Stati Uniti e Israele. Ha alimentato le fila della resistenza palestinese.
Ciò che sta accadendo a Gaza non è senza precedenti. L’esercito indonesiano, sostenuto dagli Stati Uniti, ha condotto una campagna durata un anno nel 1965 per sterminare coloro che erano accusati di essere leader, funzionari, membri del partito e simpatizzanti comunisti. Il bagno di sangue, in gran parte portato avanti da squadroni della morte e bande paramilitari, ha decimato il movimento sindacale insieme alla classe intellettuale e artistica, ai partiti di opposizione, ai leader degli studenti universitari, ai giornalisti e ai cinesi etnici. Un milione di persone sono state massacrate. Molti dei corpi sono stati gettati nei fiumi, seppelliti frettolosamente o lasciati marcire ai bordi delle strade.
Questa campagna di omicidi di massa è oggi mitizzata in Indonesia, come lo sarà in Israele. È rappresentata come una battaglia epica contro le forze del male, proprio come Israele equipara i palestinesi ai nazisti.
Gli assassini nella guerra indonesiana contro il “comunismo” vengono acclamati ai raduni politici. Sono osannati per aver salvato il paese. Sono intervistati in televisione sulle loro “eroiche” battaglie. I tre milioni di giovani Pancasila, l’equivalente indonesiano delle “camicie brune” o della Gioventù hitleriana, nel 1965 si unirono al caos genocida e sono considerati i pilastri della nazione.
Mitologizziamo il nostro genocidio dei nativi americani, romanticizzando i nostri assassini, i nostri uomini armati, i nostri fuorilegge, le nostre milizie e le nostre unità di cavalleria. Noi, come Israele, facciamo dell’esercito un feticcio.
Il massacro industriale, quello che il sociologo James William Gibson chiama “tecnoguerra”, definisce l’assalto di Israele a Gaza e al Libano. La tecnoguerra è incentrata sul concetto di “eccesso di uccisioni”. L’eccesso di uccisioni, con i suoi numeri intenzionalmente elevati di vittime civili, è giustificato come una forma efficace di deterrenza. È quello che Israele, cinicamente, chiama “tagliare l’erba”.
L’incursione del 7 ottobre in Israele da parte di Hamas e di altri gruppi di resistenza, che ha causato la morte di 1.154 israeliani, turisti e lavoratori migranti e ha visto circa 240 persone prese in ostaggio, ha fornito a Israele il pretesto per ciò che desiderava da tempo: la totale cancellazione dei palestinesi.
Israele ha danneggiato o distrutto le università di Gaza, tutte ora chiuse, e il 60 percento di altre strutture educative, tra cui 13 biblioteche. Ha anche distrutto almeno 195 siti storici, tra cui 208 moschee, chiese e gli Archivi centrali di Gaza che contenevano 150 anni di documenti e registri storici. Gli aerei da guerra, i missili, i droni, i carri armati, i proiettili di artiglieria e i cannoni navali di Israele polverizzano quotidianamente Gaza, che è lunga solo 20 miglia e larga cinque miglia, in una campagna di terra bruciata diversa da qualsiasi cosa vista dalla guerra in Vietnam. Ha sganciato 25.000 tonnellate di esplosivi, equivalenti a due bombe nucleari, su Gaza, molti obiettivi selezionati dall’intelligenza artificiale. Sgancia munizioni non guidate (“bombe stupide”) e bombe “bunker buster” da 2000 libbre su campi profughi e centri urbani densamente popolati, nonché sulle cosiddette “zone sicure”: il 42 percento dei palestinesi uccisi si trovava in queste “zone sicure”, dove Israele aveva ordinato loro di fuggire. Oltre 1,9 milioni di palestinesi sono stati sfollati dalle loro case, costretti a trovare rifugio in rifugi UNRWA sovraffollati, corridoi e cortili di ospedali, scuole, tende o all’aria aperta nel sud di Gaza, spesso vivendo accanto a pozze fetide di liquami grezzi.
Il blocco israeliano del nord di Gaza ha lasciato oltre 400.000 palestinesi a sopportare un assedio di fame e continui attacchi aerei nel tentativo di spopolare il nord. Le forze israeliane hanno ucciso 1.250 palestinesi nell’attacco, lanciato il 5 ottobre, ha detto una fonte medica ad Al Jazeera. I resoconti dal nord di Gaza sono difficili da ottenere poiché i servizi Internet e telefonici sono stati tagliati e i pochi giornalisti sul campo continuano a essere uccisi. Le unità di difesa civile affermano che le forze israeliane hanno impedito loro di raggiungere i siti degli attacchi e i loro equipaggi sono stati attaccati.
Israele ha ordinato ai palestinesi di fuggire verso le “zone sicure” designate, ma una volta in queste “zone sicure” sono stati attaccati e hanno ricevuto l’ordine di spostarsi verso nuove “zone sicure”.
Israele ha ucciso almeno 42.600 palestinesi a Gaza, tra cui 13.000 bambini e 9.000 donne. Ne ha feriti altri 99.800, molti con ferite invalidanti. Ha ucciso almeno 136 giornalisti, molti, se non la maggior parte, presi di mira deliberatamente. Ha ucciso 340 medici, infermieri e altri operatori sanitari, il quattro percento del personale sanitario di Gaza. Duecentotrentatré operatori dell’UNRWA sono stati uccisi a Gaza dal 7 ottobre 2023, il più alto numero di morti nella storia delle Nazioni Unite. Questi numeri non riflettono minimamente il numero effettivo di morti, poiché vengono contati solo i morti registrati negli obitori e negli ospedali, la maggior parte dei quali non è più in funzione. Il numero dei morti, quando vengono contati i dispersi, è ben oltre i 40.000.
Allo stesso tempo, Israele ha trasformato Gaza in una landa desolata e tossica.
“Quasi 40 milioni di tonnellate di detriti, tra cui ordigni inesplosi e resti umani, contaminano l’ecosistema”, riporta l’ONU. “Più di 140 siti di smaltimento di rifiuti temporanei e 340.000 tonnellate di rifiuti, acque reflue non trattate e traboccamenti fognari contribuiscono alla diffusione di malattie come l’epatite A, infezioni respiratorie, diarrea e malattie della pelle”.
In un ulteriore colpo, il parlamento israeliano ha approvato una legge per vietare all’UNRWA, un’ancora di salvezza per i palestinesi di Gaza, di operare sul territorio israeliano e nelle aree sotto il controllo di Israele. Il divieto quasi certamente garantisce a Gaza il crollo della distribuzione degli aiuti, già paralizzata.
Israele ha ampliato la sua “zona cuscinetto” lungo il perimetro di Gaza fino al 16 percento del territorio, nel processo di livellamento di case, condomini e fattorie. Ha spinto oltre l’84 percento dei 2,3 milioni di persone a Gaza in “una ‘zona umanitaria’ in contrazione e insicura che copre il 12,6 percento di un territorio ora riconfigurato in preparazione all’annessione”. Le immagini satellitari indicano che l’esercito israeliano ha costruito strade e basi militari in oltre il 26 percento di Gaza, “che suggerisce l’obiettivo di una presenza permanente”.
I medici sono costretti ad amputare arti senza anestesia. Quelli con gravi condizioni mediche (cancro, diabete, malattie cardiache, malattie renali) sono morti per mancanza di cure o moriranno presto. Oltre cento donne partoriscono ogni giorno, con poche o nessuna assistenza medica. Gli aborti spontanei sono aumentati del 300 percento. Oltre il 90 percento dei palestinesi di Gaza soffre di grave insicurezza alimentare, con persone che mangiano mangimi per animali ed erba. I bambini muoiono di fame. Scrittori, accademici, scienziati palestinesi e i loro familiari sono stati rintracciati e assassinati.
Il settanta per cento dei decessi registrati ha riguardato sistematicamente donne e bambini.
Israele gioca a trucchi linguistici per negare a chiunque a Gaza lo status di civile e a qualsiasi edificio, comprese moschee, ospedali e scuole, lo status di struttura protetta. I palestinesi vengono tutti bollati come responsabili dell’attacco del 7 ottobre o liquidati come scudi umani per Hamas. Tutte le strutture sono considerate obiettivi legittimi da Israele perché sono presumibilmente centri di comando di Hamas o si dice che diano rifugio a combattenti di Hamas.
Queste accuse, scrive Francesca Albanese, Rapporteur delle Nazioni Unite per i territori palestinesi, sono un “pretesto” utilizzato per giustificare “l’uccisione di civili sotto un manto di presunta legalità, la cui pervasività onnicomprensiva ammette solo intenti genocidi”.
“Ad agosto,” scrive Albanese nel suo ultimo rapporto, “i permessi di ingresso per le organizzazioni umanitarie si sono quasi dimezzati. L’accesso all’acqua è stato limitato a un quarto dei livelli precedenti al 7 ottobre. Circa il 93 percento delle economie agricole, forestali e della pesca è stato distrutto; il 95 percento dei palestinesi affronta alti livelli di insicurezza alimentare acuta e privazione per i decenni a venire”.
“Negli ultimi mesi, all’83 percento degli aiuti alimentari è stato impedito di entrare a Gaza e la polizia civile di Rafah è stata ripetutamente presa di mira, ostacolando la distribuzione”, nota il rapporto. “Almeno 34 decessi per malnutrizione sono stati registrati entro il 14 settembre 2024”.
Queste misure, osservano gli autori, “indicano l’intenzione di distruggere la popolazione tramite la fame”.
L’occupazione e il genocidio non sarebbero sostenuti senza gli Stati Uniti, che forniscono a Israele 3,8 miliardi di dollari di assistenza militare annuale. Gli Stati Uniti hanno speso 17,9 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele negli ultimi 12 mesi, tra cui la fornitura di 1.800 bombe MK84 da 2.000 libbre, 500 bombe MK82 da 500 libbre e jet da combattimento a Israele. Anche questo è il nostro genocidio.
Il genocidio a Gaza è il culmine di un processo. Non è un atto. Il genocidio è il prevedibile epilogo del progetto coloniale di insediamento di Israele. È codificato nel DNA dello stato di apartheid israeliano. È dove Israele doveva finire. E i leader sionisti sono aperti sui loro obiettivi.
Non fermiamo il genocidio di Israele perché siamo Israele, infettati dalla supremazia bianca e intossicati dal nostro dominio sulla ricchezza del globo e dal potere di annientare gli altri con le nostre armi industriali. Ricordate il cronista del New York Times Thomas Friedman che disse a Charlie Rose alla vigilia della guerra in Iraq che i soldati americani avrebbero dovuto andare casa per casa da Bassora a Baghdad e dire agli iracheni “succhiate questo”? Questo è il vero credo dell’impero statunitense.
Mentre il cambiamento climatico mette a repentaglio la sopravvivenza, mentre le risorse scarseggiano, mentre la migrazione diventa un imperativo per milioni di persone, mentre i raccolti agricoli diminuiscono, mentre le aree costiere vengono allagate, mentre siccità e incendi proliferano, mentre gli stati falliscono, mentre i movimenti di resistenza armata si sollevano per combattere i loro oppressori insieme ai loro delegati, il genocidio non sarà più un’anomalia. Sarà la norma. I vulnerabili e poveri della terra, quelli che Frantz Fanon chiamava “i miserabili della terra”, saranno i prossimi palestinesi.
La tattica della terra bruciata a Gaza e in Libano sta diventando comune in Cisgiordania.
Migliaia di palestinesi nelle città di Jenin, Nablus, Qalqilya, Tubas e Tulkarem in Cisgiordania vivono per giorni sotto coprifuoco, il che rende difficile l’accesso a cibo e acqua. Come a Gaza, l’esercito israeliano prende di mira le ambulanze, blocca gli ingressi degli ospedali e distrugge strade, elettricità e infrastrutture sanitarie pubbliche.
Droni e aerei da guerra effettuano attacchi aerei. I posti di blocco, i checkpoint e i blocchi stradali israeliani rendono i viaggi difficili o impossibili. Israele ha sospeso i trasferimenti finanziari all’Autorità Nazionale Palestinese, che nominalmente governa la Cisgiordania in collaborazione con Israele. Ha revocato 148.000 permessi di lavoro per coloro che avevano un lavoro in Israele.
“Il prodotto interno lordo (PIL) della Cisgiordania si è contratto del 22,7 percento, quasi il 30 percento delle aziende ha chiuso e sono stati persi 292.000 posti di lavoro”, si legge nel rapporto. Oltre 692 palestinesi, “10 volte la media annuale di 69 vittime dei 14 anni precedenti”, sono stati uccisi e più di 5.000 sono rimasti feriti. Dei 169 bambini palestinesi uccisi, “quasi l’80 percento è stato colpito alla testa o al torso”.
Il rapporto di Albanese respinge l’affermazione secondo cui Israele sta portando avanti l’attacco a Gaza e in Cisgiordania per “difendersi”, “sradicare Hamas” o “riportare a casa gli ostaggi”, accusando queste affermazioni di essere “camuffamento”, un modo per “rendere invisibile il crimine”. L’intento genocida, come sottolinea il giudice Dalveer Bhandari della Corte internazionale di giustizia, “può coesistere con altri secondi fini “.
Piuttosto, l’incursione in Israele di Hamas e di altri combattenti della resistenza del 7 ottobre “ha fornito l’impulso per avanzare verso l’obiettivo di un ‘Grande Israele'”.
L’Egitto e gli altri stati arabi hanno rifiutato di prendere in considerazione l’idea di accettare rifugiati palestinesi. Ma Israele sta contando di creare un disastro umanitario di proporzioni così catastrofiche che questi paesi, o altri paesi, dovranno cedere in modo da poter spopolare Gaza e rivolgere la loro attenzione alla pulizia etnica della Cisgiordania. Questo è il piano, anche se nessuno, incluso Israele, sa se funzionerà.
C’è un solo modo per porre fine al genocidio in corso a Gaza. Non è attraverso negoziati bilaterali. Israele ha ampiamente dimostrato, anche con l’assassinio del principale negoziatore di Hamas, Ismail Haniyeh, che non ha alcun interesse in un cessate il fuoco permanente. L’unico modo per fermare il genocidio dei palestinesi da parte di Israele è che gli Stati Uniti interrompano tutte le spedizioni di armi a Israele. E l’unico modo in cui ciò avverrà è se un numero sufficiente di americani chiarirà di non avere alcuna intenzione di sostenere alcuna candidatura presidenziale o alcun partito politico che alimenti questo genocidio.
Gli argomenti contro un boicottaggio dei due partiti al potere sono noti: assicurerebbe l’elezione di Donald Trump. Kamala Harris ha mostrato retoricamente più compassione di Joe Biden. Non siamo abbastanza per avere un impatto. Possiamo lavorare all’interno del Partito Democratico. La lobby israeliana, in particolare l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che possiede la maggior parte dei membri del Congresso, è troppo potente. I negoziati alla fine otterranno una cessazione del massacro.
In breve, siamo impotenti e dobbiamo rinunciare alla nostra agenzia per sostenere un progetto di uccisioni di massa. Dobbiamo accettare come normale governo l’invio di miliardi di dollari in aiuti militari a uno stato di apartheid, l’uso di veti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per proteggere Israele e l’ostruzione attiva degli sforzi internazionali per porre fine alle uccisioni di massa. Non abbiamo scelta.
Il genocidio, il crimine dei crimini riconosciuto a livello internazionale, non è una questione politica. Non può essere equiparato ad accordi commerciali, progetti di legge sulle infrastrutture, scuole private o immigrazione. È una questione morale. Riguarda l’eradicazione di un popolo. Ogni resa al genocidio ci condanna come nazione e come specie. Sprofonda la società globale un passo più vicino alla barbarie. Sviscera lo stato di diritto e deride ogni valore fondamentale che affermiamo di onorare. È una categoria a sé stante. E non combattere il genocidio con ogni fibra del nostro essere significa essere complici di ciò che Hannah Arendt definisce “male radicale”, il male in cui gli esseri umani, in quanto esseri umani, vengono resi superflui.
La lezione fondamentale dell’Olocausto, che scrittori come Primo Levi sottolineano, è che possiamo tutti diventare carnefici volontari. Ci vuole molto poco. Possiamo tutti diventare complici, anche solo attraverso l’indifferenza e l’apatia, del male.
“I mostri esistono”, scrive Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, “ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi. Più pericolosi sono gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad agire senza fare domande”.
Affrontare il male, anche se non c’è alcuna possibilità di successo, mantiene viva la nostra umanità e dignità. Ci consente, come scrive Vaclav Havel in “The Power of the Powerless” [Il potere dei senza potere], di vivere nella verità, una verità che i potenti non vogliono che venga detta e cercano di sopprimere. Fornisce una luce guida a coloro che vengono dopo di noi. Dice alle vittime che non sono sole. È “la rivolta dell’umanità contro una posizione imposta” e un “tentativo di riprendere il controllo sul proprio senso di responsabilità”.
Cosa dice di noi il fatto che accettiamo un mondo in cui armiamo e finanziamo una nazione che uccide e ferisce centinaia di innocenti ogni giorno?
Cosa dice di noi se sosteniamo una carestia organizzata e l’avvelenamento delle riserve idriche in zone in cui è stato rilevato il virus della poliomielite, il che significa che decine di migliaia di persone si ammaleranno e molte moriranno?
Cosa dice di noi se permettiamo per oltre 12 mesi che campi profughi, ospedali, villaggi e città vengano bombardati per sterminare intere famiglie e costringere i sopravvissuti ad accamparsi all’aperto o a trovare riparo in tende rudimentali?
Cosa dice di noi il fatto che accettiamo l’omicidio di 11.000 bambini, anche se si tratta sicuramente di una sottostima ?
Cosa dice di noi il fatto che Israele intensifichi gli attacchi contro le strutture delle Nazioni Unite, le scuole (tra cui la scuola Al-Tabaeen a Gaza City, dove oltre 100 palestinesi sono stati uccisi mentre eseguivano il Fajr, la preghiera dell’alba) e altri rifugi di emergenza?
Cosa dice di noi il fatto che permettiamo a Israele di usare i palestinesi come scudi umani, costringendo civili ammanettati, tra cui bambini e anziani, a entrare in tunnel e edifici potenzialmente esplosivi prima delle truppe israeliane, a volte vestite con uniformi militari israeliane?
Cosa dice di noi il fatto che sosteniamo politici e soldati che difendono lo stupro e la tortura dei prigionieri?
Sono questi i tipi di alleati che vogliamo rafforzare? È questo il comportamento che vogliamo abbracciare? Quale messaggio invia al resto del mondo?
Se non ci atteniamo saldamente agli imperativi morali, siamo condannati. Il male trionferà. Ciò significa che non esiste giusto e sbagliato. Ciò significa che tutto, incluso l’omicidio di massa, è ammissibile. La speranza risiede negli accampamenti universitari, nell’occupazione degli edifici, negli scioperi della fame, nelle strade e, naturalmente, in terze parti che sfidano l’impero. Queste persone, che marciano al ritmo di un tamburo diverso, sono la coscienza della nazione.
Una posizione morale ha sempre un costo. Se non c’è alcun costo, non è morale. È semplicemente una credenza convenzionale.
“Ma che dire del prezzo della pace?” chiede nel suo libro “No Bars to Manhood” il sacerdote cattolico radicale Daniel Berrigan, che fu mandato in una prigione federale per aver bruciato i verbali di leva durante la guerra in Vietnam:
Penso alle persone buone, perbene, amanti della pace che ho conosciuto a migliaia, e mi chiedo. Quante di loro sono così afflitte dalla malattia logorante della normalità che, anche quando dichiarano la pace, le loro mani si allungano con uno spasmo istintivo nella direzione delle loro comodità, della loro casa, della loro sicurezza, del loro reddito, del loro futuro, dei loro progetti: quel piano quinquennale di studi, quel piano decennale di status professionale, quel piano ventennale di crescita e unità familiare, quel piano cinquantennale di vita dignitosa e onorevole fine naturale. “Certo, facciamo la pace”, gridiamo, “ma allo stesso tempo facciamo la normalità, non perdiamo nulla, lasciamo che le nostre vite restino intatte, non conosciamo né la prigione né la cattiva reputazione né la rottura dei legami”. E poiché dobbiamo abbracciare questo e proteggere quello, e poiché a tutti i costi — a tutti i costi — le nostre speranze devono procedere secondo i tempi previsti, e poiché è inaudito che in nome della pace cada una spada, disgiungendo quella sottile e astuta ragnatela che le nostre vite hanno tessuto, perché è inaudito che uomini buoni debbano subire ingiustizie o famiglie divise o buona reputazione persa — per questo gridiamo pace e gridiamo pace, e non c’è pace. Non c’è pace perché non ci sono pacificatori. Non ci sono pacificatori perché fare la pace è almeno costoso quanto fare la guerra — almeno altrettanto esigente, almeno altrettanto dirompente, almeno altrettanto soggetto a portare disonore, prigione e morte al suo seguito.
La questione non è se la resistenza sia praticabile. È se la resistenza sia giusta. Siamo tenuti ad amare il nostro prossimo, non la nostra tribù. Dobbiamo avere fede che il bene attrae a sé il bene, anche se le prove empiriche intorno a noi sono desolanti. Il bene è sempre incarnato nell’azione. Deve essere visto. Non importa se la società più ampia è censoria. Siamo chiamati a sfidare — attraverso atti di disobbedienza civile e non conformità — le leggi dello Stato, quando queste leggi, come spesso accade, sono in conflitto con la legge morale. Dobbiamo stare, a qualsiasi costo, con i crocifissi della terra. Se non prendiamo questa posizione, che sia contro gli abusi della polizia militarizzata, l’inumanità del nostro vasto sistema carcerario o il genocidio a Gaza, diventiamo i crocifissori.
“Alla loro morte si aggiunsero scherni di ogni genere”, scrisse lo storico romano Tacito di coloro che l’imperatore Nerone aveva scelto per la tortura e la morte. “Coperti con pelli di bestie, venivano sbranati dai cani e perivano, o venivano inchiodati alle croci, o erano destinati alle fiamme e bruciati, per servire da illuminazione notturna, quando la luce del giorno era tramontata”.
Il sadismo dei potenti è la maledizione della condizione umana. Era diffuso nell’antica Roma come lo è in Israele.
Conosciamo il volto moderno di Nerone, che illuminava le sue opulente feste in giardino bruciando vivi prigionieri legati a pali. Questo non è in discussione.
Ma chi erano gli ospiti di Nerone? Chi vagava per i terreni dell’imperatore mentre esseri umani, come a Rafah, venivano bruciati vivi? Come potevano questi ospiti vedere, e senza dubbio sentire, una sofferenza così orrenda e assistere a torture così spaventose ed essere indifferenti, persino contenti?
Chi erano gli ospiti di Nerone?
Siamo gli ospiti di Nerone.
La storia giudicherà Israele per questo genocidio. Ma giudicherà anche noi. Ci chiederà perché non abbiamo fatto di più, perché non abbiamo reciso tutti gli accordi, tutti i patti commerciali, tutti i compromessi, tutta la cooperazione con lo stato dell’apartheid, perché non abbiamo fermato le spedizioni di armi a Israele, perché non abbiamo richiamato i nostri ambasciatori, perché quando il commercio marittimo nel Mar Rosso è stato interrotto dallo Yemen, Arabia Saudita e Giordania hanno creato una rotta alternativa via terra per entrare in Israele, perché non abbiamo fatto tutto ciò che era in nostro potere per porre fine al massacro. Ci condannerà per non aver tenuto conto della lezione fondamentale dell’Olocausto, che non è che gli ebrei sono le eterne vittime, ma che quando hai la capacità di fermare il genocidio e non lo fai, sei colpevole.
“L’opposto del bene non è il male”, scrisse Samuel Johnson. “L’opposto del bene è l’indifferenza”.
La resistenza palestinese è la nostra resistenza. La lotta palestinese per la dignità, la libertà e l’indipendenza è la nostra lotta. La causa palestinese è la nostra causa. Perché, come ha anche dimostrato la storia, coloro che un tempo erano ospiti di Nerone divennero presto vittime di Nerone.
Chris Hedges è un giornalista vincitore del premio Pulitzer che è stato corrispondente estero per quindici anni per il New York Times, dove ha ricoperto il ruolo di capo dell’ufficio per il Medio Oriente e capo dell’ufficio per i Balcani per il giornale. In precedenza ha lavorato all’estero per il Dallas Morning News, il Christian Science Monitor e la NPR. È il conduttore dello show The Chris Hedges Report. Ha fatto parte del team che ha vinto il premio Pulitzer del 2002 per il giornalismo esplicativo per la copertura del terrorismo globale da parte del New York Times e ha ricevuto l’Amnesty International Global Award del 2002 per il giornalismo sui diritti umani. Hedges, che ha conseguito un Master of Divinity presso la Harvard Divinity School, è autore dei bestseller American Fascists: The Christian Right and the War on America, Empire of Illusion: The End of Literacy and the Triumph of Spectacle ed è stato finalista del National Book Critics Circle per il suo libro War Is a Force That Gives Us Meaning. Scrive una rubrica online per il sito web ScheerPost. Ha insegnato alla Columbia University, alla New York University, alla Princeton University e alla University of Toronto.