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di Valeria Ballarati

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L'idraulico che serve a Davos

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Se il bagno di Davos è tanto tanto una metafora, e quale bagno non lo è?, il grande evento di leader e sapienti che da anni ci consegna l’oroscopo sul nostro futuro ha definitivamente bisogno di un idraulico. Non quello polacco (mitica figura inventata da un altro sapientone, Fritz Bolkestein, commissario europeo al Mercato Interno, nel gennaio 2004, nel presentare la sua direttiva sulla liberalizzazione del mercato dei fornitori di servizi in Europa), ma di quelli che arrivano con l’architetto e concludono che la toilette in questione non può più essere aggiustata, signora mia.

La Bbc, del resto, l’ha detto senza giri di parole, il World Economic Forum quest’anno è risultato «piatto» – che è poi il termine più cortese per dire «flop».

La Davos di cui stiamo parlando è quella ben raccontata da Federico Fubini, che sul Corriere della Sera del 28 gennaio ci rivelava che nel consesso internazionale a maggior concentrazione di potere e denaro (partecipazione da 25 mila euro a testa fino a mezzo milione di euro per i «partner»), la più semplice delle comodità umane è anche la più scarsa delle risorse, il bagno appunto. Una sola «ritirata» per i duemila partecipanti, «mentre al piano superiore del Centro Congressi c’è un luogo guardato con cura da una hostess, dominato da una grande scritta argentata: Strategic Partners. Sono i bagni riservati alle aziende che pagano circa mezzo milione di dollari l’anno. Sono un centinaio di nomi celebri come Goldman Sachs, Bank of America, Bill and Melinda Gates Foundation, Google, Saudi Basic Industries». Seguendo la più semplice regola di mercato (cioè il controllo delle risorse non importa quali esse siano), basta dunque restringere l’area di accesso ai bagni per ricostruire la piramide umana anche lì dove sono tutti ricchi. Dall’involontario apologo nasce la domanda inevitabile: se un consesso così spontaneamente, ossessivamente, conservatore dell’ordine esistente sia davvero il più adatto ad affrontare la riflessione che gli veniva sottoposta quest’anno, «La grande trasformazione: formare nuovi modelli».

In effetti, in un anno segnato dal «people power», quello delle rivolte arabe o di Occupy, nella stagione del declassamento delle principali economie mondiali, la riunione di 2600 top leaders politici, economici ed intellettuali, è parsa del tutto incongrua nella sua estrema minorità. Non parliamo di numeri – anche se duemilaseicento persone costituiscono lo 0,00004% della popolazione mondiale e preferiamo non contare quanti zeropercentuale di denaro mondiale gli appartiene. Parliamo piuttosto di rappresentanza.

Non si evoca qui il solito sospetto contro il governo mondiale dei banchieri e della finanza – Davos è troppo visibile per rappresentare una agenda segreta. Né si vuole mettere in dubbio l’importanza delle élite, che hanno sempre svolto una fondamentale funzione di stimolo nelle nostre società.

Il dubbio è proprio se queste élite che si riuniscono a Davos siano davvero tali, se cioè siano oggi in grado di esercitare davvero la loro funzione di «avanguardia» del pensiero.

Intanto, possiamo sostenere con certezza che è improbabile che le decine di teste coronate presenti in Svizzera siano capaci di rappresentare i propri sudditi – che dire dell’Arabia Saudita, ad esempio? Ma altrettanto si può dubitare dei leader economici, che siano George Soros o i manager di Facebook e Google. Per non parlare di leader politici attuali ed ex arrivati in massa. Come dimenticare che sono loro che hanno guidato o guidano la nave delle economie in crisi oggi? Possono essere i conducenti falliti coloro che si inventano nuovi modelli?

Mai come a Davos in questi giorni è stato possibile vedere rappresentata la crisi nella sua stessa essenza: in un mondo che è in difficoltà perché non sa rinnovarsi, coloro che chiedono il cambiamento sono proprio quelli che non cambiano, i leader politici, intellettuali ed economici di sempre.

Davos è in verità un importante luogo della nostra storia. E’ cresciuto ed ha rappresentato (dall’anno della fondazione, il 1971) la trasformazione delle nostre economie. In un capitalismo sempre più sganciato dal prodotto, è diventato il tempio della celebrazione del marginale sul sostanziale, del progressivo peso giocato nel capitalismo moderno senza prodotto dalle idee, dalla interrelazionalità, dalle parole. Oggi che quel capitalismo è entrato in crisi, il peso di quelle parole rischia di diventare la zavorra delle chiacchiere.

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