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di Valeria Ballarati

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Home I miei pensieri filosofici ... Il mito della caverna

Il mito della caverna

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Il mito della caverna di Platone è uno dei più conosciuti tra i miti o allegorie o metafore del filosofo ateniese. Il mito è raccontato all'inizio del libro settimo de La Repubblica (514 b – 520 a).

Si tratta di uno dei testi universalmente riconosciuti come fondamentali per la storia del pensiero e della cultura occidentale.

Si immaginino dei prigionieri incatenati alla nascita, nelle profondità di una caverna. Non solo le membra, ma anche testa e collo sono bloccati, in maniera che gli occhi dei malcapitati possano solo fissare il muro dinanzi a loro.

Alle spalle dei prigionieri é stato acceso un fuoco e, tra il fuoco e i prigionieri, corre una strada dove è stato eretto un muro sul quale alcuni uomini portano vari oggetti, animali, piante e persone. L'ombra degli oggetti si proietta sul fondo della caverna attirando l'attenzione dei prigionieri. Se qualcuno degli uomini parlasse, l'eco nella caverna spingerebbe i prigionieri a pensare che la voce provenga dalle ombre che vedono passare ...

Mentre un personaggio esterno avrebbe un'idea completa della situazione, i prigionieri, non conoscendo cosa accade alle proprie spalle e non avendo esperienza del mondo esterno (incatenati fin dall'infanzia), sarebbero portati ad interpretare le ombre "parlanti" come oggetti, animali, piante e persone reali.

Supponendo che un prigioniero venga liberato dalle catene, all'avvicinarsi all'uscita della caverna i suoi occhi sarebbero abbagliati dalla luce del sole ed egli proverebbe dolore. Inoltre, le forme portate dagli uomini lungo il muro gli sembrerebbero meno reali delle ombre alle quali è abituato; persino se gli fossero mostrati quegli oggetti - e il fuoco fonte di luce - il prigioniero rimarrebbe dubbioso e, soffrendo nel fissare il fuoco, preferirebbe volgersi verso le ombre.

Allo stesso modo, se fosse costretto a uscire dalla caverna venendo esposto alla diretta luce del sole, rimarrebbe accecato e non riuscirebbe a vedere alcunché. Il prigioniero si troverebbe sicuramente a disagio e s'irriterebbe per essere stato trascinato a viva forza in quel luogo. Volendo abituarsi alla nuova situazione, riuscirebbe inizialmente a distinguere solo le ombre delle persone e le loro immagini riflesse nell'acqua; con il passare del tempo potrebbe sostenere la luce e guardare gli oggetti stessi. Successivamente potrebbe, di notte, volgere lo sguardo al cielo, ammirando i corpi celesti. Infine sarebbe capace di vedere il sole stesso, invece che il suo riflesso nell'acqua, e capirebbe che:

«è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano.» (Platone, La Repubblica, libro VII, 516 c - d, trad.: Franco Sartori)


Resosi conto della situazione, egli vorrebbe senza dubbio tornare nella caverna e liberare i suoi compagni, essendo felice del cambiamento e provando per loro un senso di pietà: il problema però sarebbe convincere gli altri prigionieri. Infatti dovendo riabituare gli occhi all'ombra, dovrebbe passare del tempo prima che possa di nuovo vedere anche nel fondo della caverna e in questo periodo, sarebbe probabilmente oggetto di riso da parte degli altri prigionieri, in quanto dall'ascesa torna con
"gli occhi rovinati". Inoltre, questa sua temporanea inabilità influirebbe negativamente sull'opera di convincimento e anzi, potrebbe spingere gli altri prigionieri ad ucciderlo se tentasse di liberarli, e portarli verso la luce, in quanto, a loro dire, non varrebbe la pena di subire il dolore dell'accecamento e la fatica della risalita per andare ad ammirare le cose da lui descritte.

Fonte

Commento: la caverna di questi tempi é più affollata che mai. Molti si sono liberati ma, se osserviamo il mito, é un rischio tornare nella caverna per liberare gli altri.

Ci deve essere un senso anche in questo.