L’UOMO CHE VERRA’ é un film emozionante, onesto, appassionato, che sa coniugare lucidità morale e lettura storica, evitando luoghi comuni e cadute retoriche, e riesce a regalarci una delle più belle prove di un cinema necessario, di altissimo rigore morale e insieme di appassionante e coinvolgente forza civile.
Ambientato nelle colline bolognesi vicino a Marzabotto,quotidiana della famiglia contadina Palmieri, dall'inverno 1943 all'autunno 1944: i nazisti presidiano con determinazione la Linea gotica, i partigiani del comandante Lupo s’impegnano nell'infastidire e sabotare le azioni degli occupanti e i civili cercano di campare alla meno peggio, subendole intimidazioni degli uni e le richieste degli altri.
Lena porta in grembo l'«uomo che verrà», la cognata Beniamina spera di migliorare la sua condizione andando a servire a Bologna, il marito Armando si dibatte tra i vincoli della mezzadria e le imposizione fasciste. Insieme ai contadini che abitano nella stessa cascina, condividono la dura vita quotidiana e quel che resta della voglia di trovarsi insieme a ballare o chiacchierare.
A guidare lo spettatore c'è lo sguardo curioso di Martina, 8 anni, la figlia di Lena e Armando diventata muta dopo la morte di un precedente fratellino e trepidante custode di quello in arrivo: il bambino nasce nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1944, proprio mentre i nazisti stanno rastrellando donne, bambini e anziani, un eccidio che passerà alla storia come la strage di Marzabotto…
Il regista Giorgio Diritti, 50 anni, è stato assistente di Olmi (si vede dallo stile) e responsabile di cast per Fellini e Avati elabora un modo di vedere la guerra dove nonc'è bisogno di suddivisioni manichee o di una crudeltà pittoresca per comprendere da che parte stare.
Per raccontare quella strage degli ultimi giorni del nazifascismo, nella quale vennero uccisi circa 770 persone (i bambini uccisi furono 200) radunate nelle case, nei cimiteri e sui sagrati delle chiese, Diritti si affida a un proposito simile a quello del suo precedente Il vento fa il suo giro: partire dalla lingua del dialetto per raccontare una comunità e dal linguaggio del cinema per costruire un messaggio sull'identità culturale.
Rispetto al lungometraggio d'esordio, il film si confronta direttamente con la memoria storica e tende a ricostruire la storia del massacro in modo strategico, puntando sul lato emozionale, ma mai ricattatorio, della messa in scena. Non più il punto di vista di uno straniero che tenta di confondersi e integrarsi con quello di una comunità ostile, ma quello di un piccolo membro di una collettività, Martina, che si congiunge e si scambia con quello di tutte le vittimedella strage.
Agli uomini, alle donne e ai bambini del film ci siamo affezionati vedendo la loro grama vita quotidiana, sentendo il loro odore di terra o di stalla e soffrendo la loro stessa povertà, ascoltando la durezza di una lingua che ha le stesse asprezze dei volti (per questo era necessario far parlare tutti in dialetto, per questo non disturbano i necessari sottotitoli).
Diritti sposa, dall'inizio alla fine, lo sguardo dei contadini di Monte Sole, secondo logiche e ritmi che non appartengono alla Storia e alle sue guerre ma alla cultura contadina, al rapporto con la natura, a quella concezione arcaica e sacrale della vita già cara, con accenti diversi, a Olmi e Pasolini.
Storie di gente semplice, costretta ad intrecciare le proprie vicende legate ai raccolti, alle nascite, alle morti, alla grande tragedia della guerra. Il suo scopo principale non è solo quello di raccontare l'evento che bagnò di sangue le terre emiliane, lasciando strascichi di dolore per generazioni, ma anche ricostruire il senso di una comunità di contadini che conosce solo le leggi della vita e della natura e che proprio facendo forza su quelle decide di opporsi alla prevaricazione e all'ingiustizia. Si muore, si nasce. A volte si vive, e chi vive ha l'onore e l'onere di ricordare.
Diritti guarda oltre, alla sofferenza e alla disperazione di tutti coloro che il cinismo del linguaggio definisce come «danni collaterali» delle guerre; al dolore e alla tragedia di quegli inermi che pagano sulla propria pelle la follia e l’assurdità delle guerre e delle violenze.
Perché proprio questo film oggi? Perché lunedì ho parlato di un bel libro, Canale Mussolini, e io trovo che questi due "pezzi della nostra storia" narrati con mezzi di espressione diversi, a partire da due posizioni molto diverse, hanno in realtà un identico messaggio di fondo: la guerra é orribile sia che tu stia di qui o di là e inutili sofferenze vanno sempre a finire su inermi popolazioni locali.