Capitolo 1
Cause, radici e sviluppi dell’oppressione sociale
“Non camminare davanti a me, potrei non seguirti;
non camminare dietro di me, potrei non sapere dove andare;
cammina a fianco a me e sii per me un amico!”
Albert Camus
“On les voit à peine, on les sent, plutôt qu’on ne les voit.
On à des peines infinies à les faire sentir à ceux qui ne les sentent pas d’eux-memes (…)”
Blaise Pascal, pensée 21 - Esprit de géometrie et ésprit de finesse
1.1 L’oppressione sociale
Era una Simone Weil giovanissima quella che a soli venticinque anni prendeva coscienza di snodi fondamentali, e scriveva riflessioni impattanti e significative essendo mossa da sete di giustizia e apertura verso l’altro suo simile. Pensava naturalmente ad alcune soluzioni pratiche, come era il suo modo di reagire alle situazioni nel tentativo di “riparare il mondo”, analizzando dapprima le cause e le forme in cui l’oppressione sociale si era storicamente data.
“Dal punto di vista morale l’oppressione è un insulto alla dignità della natura umana”[1] scriveva nella lezione di filosofia sull’oppressione sociale per le sue allieve al liceo femminile di Roanne, nel 1933-34, appena dopo il primo periodo di insegnamento a le Puy, dove la militanza nel sindacato rivoluzionario e le umane frequentazioni con gli operai avevano generato uno scandalo,[2] e persino interventi delle autorità scolastiche a verifica dei suoi metodi di insegnamento, risultati ineccepibili.
E’ l’anno in cui scrive l’articolo Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale a cui teneva molto, una sorta di “testamento” prima dell’ingresso in fabbrica, testo che le prenderà molte energie[3] a partire dalla primavera e per buona parte dell’estate assumendo infine le dimensioni di un piccolo libro.[4] Datata 20 giugno 1934 è anche la domanda di aspettativa per “studi personali” dove non parla naturalmente del suo voler lavorare in fabbrica ma descrive il progetto in questi termini:
“Desidererei preparare una tesi di filosofia concernente il rapporto della tecnica moderna, base della grande industria, con gli aspetti essenziali della nostra civiltà, cioè da un lato la nostra organizzazione sociale e dall’altro la nostra cultura.”[5]
Nella sua biografia Pétrement adduce la ragione della pausa al fatto che “conciliare l’organizzazione richiesta dalla società industriale con le condizioni di lavoro e di vita di un proletariato libero, e coordinare i lavori senza opprimere”[6] era una domanda a cui non aveva ancora trovato risposta; provando su di se avrebbe visto meglio le misure più appropriate, dato che il contatto diretto con l’oggetto poteva forse suggerirne.[7] Scrive ancora Pétrement:
“si trattava veramente di uno studio, non solo di una «esperienza» come credono alcuni. Voleva scoprire grazie a quale meccanismo si instaura l’oppressione dell’uomo da parte dell’uomo, e anzitutto della macchina sull’uomo, per vedere come abolirla”[8].
Nell’articolo Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale Weil analizzò che sin dal momento in cui le società avevano iniziato a produrre qualcosa si erano organizzate in modo oppressivo. Ogni società oppressiva si legava al potere. Il potere falsificava i rapporti sociali, permettendo a chi lo possedeva di ordinare ad altri molto più di quanto avrebbe realmente potuto imporre. Domandandosi come si poteva fare a meno dell’oppressione, la filosofa era guidata dal principio morale kantiano del trattare le persone come fini e mai come mezzi, ispirata “in parte a Marx e a certe osservazioni di Alain, per esempio quando dimostra che l’oppressione ha una certa funzione sociale perché accresce in qualche misura l’efficacia del lavoro o dell’azione”[9].
Le società si erano sempre organizzate in modo da poter vivere in determinati periodi storici e in determinati luoghi e non erano i principi a regolarle, piuttosto le condizioni materiali (proprio come un organismo vivente) vale a dire l’ambiente in cui la società si trovava a vivere, le attrezzature di cui disponeva, le altre società circostanti. Senza organizzazione, avendo a che fare con la lotta contro la Natura e con le altre società, un singolo gruppo sociale si sarebbe presto estinto. Bisognava quindi trovare una mediazione tra una società che fosse conforme alle esigenze della ragione e allo stesso tempo si occupasse delle necessità inferiori. Aggiungeva a monte un pensiero:
“Le cause dell’evoluzione sociale andrebbero ricercate unicamente negli sforzi quotidiani degli uomini considerati come individui. Questi sforzi non si dirigono certo a caso; essi dipendono per ciascuno dal temperamento, dall’educazione, dalle abitudini, dai costumi, dai pregiudizi, dai bisogni naturali o acquisiti, dall’ambiente circostante, e soprattutto, in generale, dalla natura umana, termine che probabilmente non è privo di senso, anche se difficile a definirsi.”[10]
Le cause dell’evoluzione sociale dipendevano prima di tutto dalla “natura umana”.
Data la diversità indefinita degli individui e poiché la natura umana comportava tra gli altri il potere di innovare, creare, superare se stessi, gli sforzi umani andavano incanalati e a questo provvedevano le materiali condizioni di esistenza (ambiente, attrezzature, altre società).[11] Da quando l’uomo si era affrancato dalla Natura, la modalità necessaria per raggiungere l’efficacia di un’azione era stato il coordinamento di molti individui da parte di una sola figura, una sola mente, e ciò valeva sia che si trattasse della lotta contro la natura che contro gli uomini. C’era sempre stata una divisione tra chi “faceva fare” e chi “faceva” e questa suddivisione limitava di conseguenza anche il consumo, con il risultato che di fatto chi deteneva potere aveva privilegi e diventava il custode del patrimonio sociale. I privilegi si originavano dalle inevitabili tappe dello sviluppo umano, monopolio di conoscenza di alcuni perché non potevano essere ripartiti tra tutti, e la filosofa scriveva: “a partire da quel momento, tali privilegiati, benché dipendano per vivere dal lavoro di altri, hanno in mano le sorti di quegli stessi da cui dipendono, e l’uguaglianza muore.”[12] All’inizio erano stati i riti religiosi coi quali l’uomo intendeva conciliarsi con la natura, che seppur finzione erano creduti, ma troppo numerosi e complicati per essere ricordati da tutti divenivano un segreto, conoscenza dei soli sacerdoti, i soli a poter disporre delle “forze della natura”; nella società moderna i riti sono diventati i procedimenti scientifici “e coloro che li detengono si chiamano scienziati e tecnici piuttosto che sacerdoti.”[13] Anche le armi erano un privilegio: uomini armati potevano soggiogare lavoratori impotenti e, sebbene impossibilitati a produrre, avrebbero potuto impadronirsi dei frutti del lavoro altrui; ugualmente si poteva dire per l’oro o la moneta: un lavoratore sottoposto alla divisione del lavoro non poteva vivere senza scambiare una parte dei suoi prodotti ed ecco la necessità dell’organizzazione degli scambi, e il coordinamento in monopolio di specialisti non appena un certo grado di complicazione é raggiunto.
Dal punto di vista intellettuale si era originata così la separazione tra pensiero e mondo reale: chi pensava apparteneva alla classe privilegiata, la quale viveva una realtà molto diversa dal lavoratore, il cui risultato era una visione e una cultura alterate; inoltre il monopolio del pensiero era costrittivo: ogni volta che un pensiero diverso provava a farsi strada veniva soppresso dall’autorità della classe pensante privilegiata. Nell’attività del lavoro Weil riteneva invece che pensiero e ordini impartiti avrebbero dovuto prima essere compresi dal lavoratore, e non imposti, dato che il bisogno primario del lavoratore era capire le ragioni per le quali un certo compito andava eseguito; partecipando al processo il lavoratore si sarebbe sentito utile e non schiavo. “Gli operai si affezionano a un lavoro quando lo comprendono”[14] scriveva nella lezione di filosofia a proposito dell’oppressione, concludendo che per ogni operaio era indispensabile lavorare consapevolmente.
Globalmente il giudizio di Weil sul metodo di lavoro appariva pessimistico: intuiva che erano le stesse condizioni di vita a distruggere la speranza negli individui, non dipendeva solo dalle dittature del passato che avevano soffocato l’aspirazione alla democrazia; per l’operaio non c’era più la coscienza di fornire con le sue capacità un valore aggiunto a quanto prodotto, come era stato nel periodo delle corporazioni artigiane, o nell’agricoltura dei piccoli proprietari terrieri, il che lo faceva sentire inutile e ridotto a mezzo; anche il solo avere da lavorare assumeva il significato di godere d’un privilegio rispetto a chi non lo aveva. D’altra parte, dal lato dell’imprenditore, era finita la credenza nel progresso economico illimitato, dato il limite posto dalle risorse naturali finite e dalla concorrenza, aspetti sempre più difficili da affrontare. E se anche il progresso tecnico aveva fatto passi da gigante s’era occupato solo di innovazione intesa ad acquisire conoscenze e abilità atte ad espandere i beni producibili sul mercato, senza cura alcuna per le masse, senza creare per i lavoratori benessere ma al contrario sottoponendoli a sempre maggior miseria fisica e morale. A questo s’aggiungeva il fallimento del progresso scientifico: un’eccessiva tendenza a specializzare e parcellizzare le competenze aveva portato a una perdita generale di competenze e a una sfiducia nella diffusione dei Lumi. Dal punto di vista della vita familiare ciò era vissuto con ansia: i più giovani non trovavano più ispirazione per il futuro (proprio come è nella società odierna).
Se la rivoluzione del 1789 aveva portato speranza, la delusione successiva genera i regimi oppressivi.
Inoltre per la filosofa le analisi di Marx ed Engels non erano riuscite a mettere in luce il meccanismo dell’oppressione, convinti che l’oppressione sociale corrispondeva alla lotta dell’uomo contro la natura mediante il lavoro, mentre Weil riteneva che per comprendere le cause dell’oppressione bisognava esaminare le condizioni di esistenza dell’essere umano e dunque l’ambiente, gli strumenti, le società circostanti. La struttura sociale non dipendeva dalle condizioni di produzione che si trasformavano, dalla lotta di classe per cui avrebbe dominato questa o quella classe: la trasformazione delle condizioni di produzione andava cercata nei “cambiamenti dei rapporti tra l’uomo e la natura”[15] e questi rapporti dipendevano “dal gioco stesso della società umana”[16].
Riscontrava altresì una “confusione tra l’idea di progresso economico e quella di progresso morale”, in un atteggiamento messianico dal carattere mitologico, che rimandava a data da destinarsi la realizzazione dello Stato, dato che in ogni caso si sarebbe realizzato. Per lei “Marx era influenzato dalla sua credenza nel progresso; la generosità dei suoi sentimenti gli faceva desiderare con tanto ardore la liberazione degli oppressi da credervi più di quanto non fosse verosimile oggettivamente; inoltre, viveva in un’epoca di prosperità é caduto nelle illusioni del suo tempo”[17].
La pensatrice gli riconosceva però il merito di aver scorto la nuova forza oppressiva rappresentata dalla “macchina burocratica e militare dello Stato”[18] come vero ostacolo alle riforme. Non era il lavoro salariato il vero problema: lo era la divisione degradante tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Se la produzione in mano ai capitalisti aveva come fine la concorrenza e lo sfruttamento del lavoro, nelle mani di tecnici della burocrazia di Stato avrebbe avuto come fine la totalità dei poteri, escludendo di conseguenza ogni parere e ogni intelligenza:
“Invece dello scontro tra opinioni contrarie, si avrebbe su ogni cosa, un’opinione ufficiale dalla quale nessuno potrebbe scostarsi; invece del cinismo proprio del capitalismo, che scioglie i legami tra uomo e uomo per sostituirli con puri rapporti di interesse, un fanatismo accuratamente coltivato, capace di rendere la miseria agli occhi delle masse, non più un fardello passivamente sopportato, ma un sacrificio liberamente accettato.”[19]
Giancarlo Gaeta, sulla nuova forma di potere oppressivo, scrive:
“Sorto con l’esigenza di coordinamento dei lavori in fabbrica e presto approdato ai sistemi coercitivi di razionalizzazione elaborati da Taylor, esso si va ora trasformando in apparato burocratico e tecnocratico di Stato, in grado di assommare in sé l’insieme dei poteri economico, militare e sindacale (…) una società razionalizzata sul modello della fabbrica, in cui domina, grazie al progresso della tecnica, la funzione amministrativa, cioè il dominio della società sull’individuo: asservimento alla macchina in fabbrica, sottomissione all’apparato burocratico, previa eliminazione di ogni facoltà di giudizio autonomo e di creatività, nella vita sociale fino a ottenere «un miscuglio di dedizione mistica e bassezza senza freno; una religione di stato che soffocherebbe tutti i valori individuali, vale a dire tutti i valori veri.»”[20]
Di seguito la pensatrice strutturava alcune riflessioni. Sosteneva che il primo dovere di fronte a un problema sociale era non nasconderselo, cioè non mentire, trovando due forme diverse di menzogna:
“Una prima forma di menzogna consiste nel mascherare l’oppressione, nell’adulare gli oppressori. Questa menzogna è molto diffusa tra persone oneste, peraltro buone e sincere, ma che non si accorgono di mentire. L’uomo è fatto in maniera tale che chi schiaccia non sente nulla, contrariamente a chi viene schiacciato. Finché non ci si è messi dalla parte degli oppressi per sentire con loro, non lo si può capire.”[21]
Da questo paragrafo si capisce di nuovo perché desiderava da tempo andare a lavorare in fabbrica: capiva che da fuori le sfuggivano dati, voleva mettersi dalla parte degli oppressi per “sentire con loro” e immersa nella situazione ne avrebbe visto ogni aspetto.
La seconda forma di menzogna era la demagogia. Se nella prima forma esistevano adulatori di oppressori per professione perché i potenti trovavano sempre persone disposte ad adularli (indicava i giornalisti come esempio), per la seconda condizione si riferiva ai burocrati dei movimenti operai, la cui funzione era quella di far credere agli oppressi di lavorare alla loro liberazione, ormai vicina, mentre non era vero. Il primo passo era allora respingere le menzogne, rendersi conto della situazione:
“Bisogna rendersi conto delle cose, e non nascondere agli altri che miliardi di uomini sono schiacciati dalla macchina sociale; bisogna cercare di conoscere le cause, non solo dell’oppressione in generale, ma di questa o quella oppressione particolare, poi cercare di alleviarla quando è possibile. D’altra parte, dobbiamo consigliare la rivolta agli oppressi solo quando può avere successo.”[22]
La rivoluzione aveva senso solo nella misura in cui avrebbe originato un mutamento decisivo negli equilibri tra oppresso e oppressore, altrimenti il sangue versato risultava vano.[23] L’oppressione non era la semplice volontà di dominio di pochi sulla massa: era determinata dalla produzione e da un equilibrio socio-economico, non poteva essere eliminata senza sapere come sostituire i vantaggi derivanti dalla struttura. C’erano tre elementi da considerare: l’unità d’azione (il pensiero forma l’unità, non schiavi ma persone che comprendono motivi); la distinzione delle funzioni tra chi comanda e chi esegue (per lavorare insieme alla creazione); la limitazione del consumo. Per riuscire gli operai avrebbero dovuto avere un potere di controllo sulla produzione per intero, ogni passaggio.
L’oppressione da sempre presente nella società non era esistita soltanto ai tempi dell’uomo primitivo, troppo occupato a provvedere a se stesso nel cercare cibo, riparo, difesa dagli animali selvaggi, sottoposto continuamente alla natura esterna; ma da quando era riuscito a emanciparsi dalla natura era passato dalla schiavitù al dominio, con una emancipazione ingannevole giacché la pressione continuava a farsi sentire nella società attraverso la forza. A seconda della natura della forza si generavano le condizioni oggettive dell’oppressione; alcune come abbiamo detto derivavano dai monopoli di conoscenza (Religione, Tecnica, Scienza, Banche, gerarchia politica e di legge).
La lotta per la potenza appariva quando le relazioni tra gli uomini diventavano più importanti delle relazioni tra l’uomo e la natura; conservare la potenza era una necessità vitale per i potenti, e così si formava l’equilibrio tra chi comandava e chi obbediva. Ma il potente era sempre alla ricerca di un maggior potere che non avrebbe potuto possedere e perciò causava lo squilibrio: non c’era un vero e proprio potere ma una corsa verso il potere, che coinvolgeva tutti (potenti e deboli). Weil scrive:
“il potere per definizione, non costituisce che un mezzo; o, per meglio dire, detenere un potere significa semplicemente possedere dei mezzi di azione che oltrepassano la forza così ristretta di cui un individuo dispone per se stesso. Ma la ricerca del potere, per il fatto stesso che è essenzialmente impotente a raggiungere il proprio oggetto, esclude ogni considerazione del fine, e giunge, per un rovesciamento inevitabile, a prendere il posto di tutti i fini.”[24]
Gli individui erano diventati lo zimbello degli strumenti di dominio che essi stessi avevano costruito, riducendo l’umanità vivente a una cosa tra le cose inerti. Se dalla natura l’uomo s’era emancipato, aveva finito per sottomettersi a qualcosa di ancora più opprimente della natura: la servitù esercitata dalla società stessa. L’uomo tormentato dall’uomo. Tanto più l’individuo si liberava dalla natura tanto più si assoggettava alla società rimanendo imprigionato. Il potere che l’uomo ricercava in quanto limitato nella sua personale forza, potere che serviva per uscire dal suo strutturale stato di vulnerabilità dovuto alla natura, da mezzo che era diventava il fine e si tramutava così nel male, il peggiore dei mali per Simone Weil.
Un modo per liberarsi dalla logica oppresso-oppressore secondo la grande pensatrice sarebbe stato poter sopprimere tutte le fonti di conoscenza, quei “i monopoli, i segreti magici o tecnici che danno potere sulla natura, gli armamenti, la moneta, il coordinamento dei lavori”[25]congiuntamente agli altri gruppi sociali, cosa impossibile perché non tutte le società si trasformano simultaneamente.
L’oppressione perciò non sarebbe mai finita finché la struttura sociale implicava il “rovesciamento del rapporto mezzo-fine e finché i procedimenti del lavoro e combattimento davano ad alcuni un potere discrezionale sulle masse (…); la società è divisa in uomini che ordinano e uomini che eseguono, tutta la vita sociale è governata dalla lotta per il potere”[26] e la sussistenza è solo un fattore annesso ad essa.
Fortunatamente il potere aveva dei limiti presenti nella natura delle cose e lei li aveva identificati. Il primo riguardava la limitata portata degli strumenti a disposizione: le lance e le spade non potevano avere la stessa portata di una bomba sganciata da un aereo, ma in questo primo punto metteva altresì in guardia dalle “astuzie” del potere:
“A dire il vero, in questo bilancio bisogna sempre far rientrare le astuzie grazie alle quali i potenti ottengono con la persuasione ciò che non sono in grado di ottenere con la costrizione, o mettendo gli oppressi in una situazione tale che essi abbiano, o credano di avere interesse immediato a fare ciò che si domanda loro, ovvero suscitando un fanatismo tale da far loro accettare qualsiasi sacrificio.”[27]
In secondo luogo si riferiva al potere nelle mani di un solo essere umano, che si poteva estendere effettivamente solo a ciò che si trovava sottoposto al suo controllo, e a fattori individuali come la sua intelligenza, la rapidità e la capacità di lavoro, gli ingranaggi del potere ma senza contare più di tanto sulla collaborazione, mai del tutto esente da rivalità. Weil dimostrava una grande conoscenza dell’indole umana. E infine, indicava un’eccedenza nella produzione dei mezzi di sussistenza sia in qualità di padroni che di schiavi, così che si potesse avere abbastanza da vivere. Secondo Weil la società dell’oppressione si cementava con questa “religione del potere”: falsificava in questo modo i rapporti sociali permettendo ai potenti di ordinare al di là delle loro facoltà.
“Tuttavia per completare il quadro bisogna tener conto del fatto che gli uomini che si trovano in rapporto con il fenomeno del potere, sia a titolo di padroni sia a titolo di schiavi, sono inconsapevoli di questa analogia. I potenti, siano essi sacerdoti, capi militari, re o capitalisti, credono sempre di comandare in virtù di un diritto divino; e quelli che sono loro sottomessi si sentono schiacciati da una potenza che pare loro divina o diabolica, in ogni caso soprannaturale.”[28]
Inoltre potere alimentava potere essendo ambivalente, distruttivo nonché tendenzialmente espansionistico. Il potere, sforzandosi di aumentare sempre di più il proprio ambito di controllo, distrugge contestualmente l’ambito dell’avversario, essendo al contempo produttivo e distruttivo, determinando così progresso o decadenza, a seconda di chi ha la meglio. Inoltre, ogni potere che usa la forza ha la tendenza ad estendere sino al limite i rapporti sociali su cui si basa, e questo fa scaturire sempre nuove risorse e nuovi schiavi.
Da ultimo vorrei dire che, se come dice Weil le cause dell’evoluzione sociale dipendono prima di tutto dalla “natura umana”, e la forza inebria chi crede di possederla ma nessuno la possiede veramente, alla fine, vincitori e vinti si assomigliano. Come scrive Mauro Bonazzi nel suo piccolo libro Simone Weil, il libro del potere:
“La forza è un’illusione, perché tutti credono di potere quello che vogliono e non capiscono che non tutto è in loro potere. E’ una vicenda nota, che si ripeterà infinte volte nella storia umana. E in questo sta la lezione di Omero, una lezione a cui solo raramente gli uomini prestano ascolto. Perché per ascoltare questa lezione bisognerebbe essere pronti a rimettere in discussione anche se stessi. E per farlo ci vuole coraggio.”[29]
[1] Simone Weil, Lezioni di Filosofia, raccolte da Anne Reynaud-Guérithault, a cura di Maria Concetta Sala, tr. it. di Luisa Nocentini, Adelphi, Milano, (1999), p. 154.
[2] Cfr. S. Pétrement, La vita di Simone Weil, trad. it. di Efrem Cierlini, Adelphi, Milano, (1994); in particolare a p. 140, Pétrement ricorda alcune frasi scritte nel bollettino del sindacato nazionale degli istitutori, dove si legge: “ciò che tra l’altro scandalizzava era il fatto che andasse al caffè con gli operai, e questo per una donna a Le Puy significava perdere la propria reputazione. Quando lo stesso commissario di polizia la interrogò a tal proposito Simone disse: Mi rifiuto di rispondere a questioni che riguardano la mia vita privata”. La piccola comunità si scandalizzava del suo stringere la mano agli spaccapietre all’uscita da scuola ma Weil riteneva che l’amministrazione universitaria fosse rimasta al regime delle caste, e ironicamente chiedeva un regolamento preciso indicante i ceti sociali che potevano essere frequentati dal corpo docente senza riprovazione.
[3] Cfr. S. Pétrement, La vita di Simone Weil, cit.; in particolare a p. 276 si legge delle particolari difficoltà di Weil nella scrittura di una lettera alla madre, al punto da confidare che: “Mi sarà impossibile riposare finché non sarà finito. In questo momento sono come una partoriente a cui il bambino sia uscito con la testa e poi si sia arrestato per capriccio… è doloroso estrarre da sé, in una sola volta, tutto ciò che si ha in corpo; e non è possibile dividerlo in piccoli pezzi, disgraziatamente. Tuttavia si è contenti di sentirsi qualcosa nel ventre.”
[4] L’articolo era nato in primavera per la rivista “La critique sociale” ma quando fu terminato la rivista, a causa di ristrettezze finanziarie, aveva cessato le pubblicazioni.
[5] S. Pétrement, La vita di Simone Weil, cit. p. 273.
[6] Ivi, p. 272.
[7] Ivi, p. 293; in particolare, in una lettera alla sua allieva chiariva più motivi che la portavano lontano dall’insegnamento. L’interesse primario era conoscere dal vivo le condizioni oppressive di fabbrica ma la sua militanza e aiuto agli oppressi erano state mal viste dalle istituzioni. “Ho preso un anno di aspettativa per lavorare un po’ per me e anche per entrare in contatto con la famosa «vita reale». Del resto, puoi ben immaginare che, se il ministero della Pubblica Istruzione continuerà per la strada che ha intrapreso, io non farò i capelli bianchi nell’insegnamento. Sono segnalata. Fra due o tre anni, o forse anche prima, sarò quasi inevitabilmente destituita.”
[8] Ivi, p. 273.
[9] Ivi, p. 290.
[10] S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà ed oppressione sociale, cit., p. 41.
[11] Ivi, p. 49, Weil scriveva: “la natura resiste, ma non si difende, e là dove essa è la sola in gioco, ogni situazione pone ostacoli ben definiti che danno allo sforzo umano la sua misura. Ma non appena i rapporti tra uomini si sostituiscono al contatto diretto dell’uomo con la natura, le cose cambiano radicalmente.
[12] Ivi, p. 47.
[13] Ivi, p. 48.
[14] S. Weil, Lezioni di Filosofia, cit. p. 155.
[15] Ivi, p.160.
[16] Ibidem
[17] Ibidem
[18] Simone Weil, “Prospettive” in Sulla Germania totalitaria, trad. it. e a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano, (1990), p. 182.
[19] Ivi, cit. p.186.
[20] Giancarlo Gaeta, Leggere Simone Weil, Quodlibet, Macerata, (2018), p. 69.
[21] S. Weil, Lezioni di Filosofia, cit. p. 155.
[22] Ivi, p. 156.
[23] Cfr. S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà ed oppressione sociale, cit.; in particolare si veda p. 55, dove Weil afferma che era vano perché inutilmente versato ma anche perché rischiava di aggravare la condizione oppressiva: “Quanto agli oppressi, la loro rivolta permanente, che ribolle sempre anche se esplode solo a tratti, può agire sia nel senso di aggravare il male, sia nel senso di ridurlo; ma nell’insieme essa costituisce soprattutto un fattore aggravante, perché costringe i padroni a far pesare il loro potere in modo sempre più greve per paura di perderlo.”
[24] S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà ed oppressione sociale, cit., p. 54.
[25] Ivi, cit. p. 55.
[26] Ivi, cit. p. 57.
[27] S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà ed oppressione sociale, cit., p.58.
[28] Ivi, pp. 59-60.
[29] Mauro Bonazzi, “Perché oggi”, in Simone Weil il libro del potere, Chiarelettere, Garzanti, Milano (2023), XIX.