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di Valeria Ballarati

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Home Varie TESI 2.3 Sradicati e radicati

TESI 2.3 Sradicati e radicati

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Weil rimproverava alla Francia di non aver riconosciuto lo stato in cui versava.

Mentre in Germania lo sradicamento aveva assunto una forma aggressiva, “in Francia si manifestava come letargia e stupore”[1]. Era dunque paradossale osservare il suo non tener testa all’invasione germanica essendo la stessa nazione dal passato di sottomissione e di estensione per conquista nel mondo intero!  Nel doloroso crollo che sorprendeva tutti, la Francia dimostrava quanto poteva essere essa stessa sradicata: occupando altri territori aveva solo esportato lo sradicamento di cui soffriva, e pur continuando a manifestare esteriormente la sua bella chioma “un albero che abbia radici quasi completamente ròse, cade al primo urto”[2] scriveva la filosofa.  Accettando dunque il principio base chi è sradicato, sradica, va da sé che lo sradicamento accompagnato da forza è conseguenza diretta dell’espansione dei popoli europei su nuove terre ...


ma, come diceva Weil, “le conquiste non sono la vita, sono la morte nel momento stesso in cui avvengono.”[3] C’è da aspettarsi che una volta assimilati, i popoli divenuti in posizione di forza, avendo appreso dall’Occidente come si fa, ripetano lo stesso tipo di errore, come ella evidenzia:


“Un popolo, sottomesso con le armi, si ritrova a subire improvvisamente il dominio da parte di stranieri di un altro colore, di un’altra lingua, di tutt’altra cultura, e per di più convinti della propria superiorità. (…) La cultura europea, rivestita col proprio prestigio e con tutti quelli provenienti dalla vittoria, finisce sempre per attirare una parte della gioventù nei paesi colonizzati. La tecnica, dopo aver sconvolto molte abitudini, stupisce e seduce con la sua potenza. Le popolazioni conquistate chiedono di assimilare, almeno in parte, questa cultura e questa tecnica; e se anche questo desiderio non compare subito, quasi infallibilmente arriva con il tempo.”[4]

Domenico Canciani, critico e interprete di Weil, ha scritto che “il tema dello sradicamento è un filo rosso che percorre sotterraneo l’intera ricerca di Simone Weil”[5]; lo riteneva al pari di una malattia infettiva, di gran lunga la più pericolosa malattia delle società umane perché:

“le persone realmente sradicate non hanno che due comportamenti possibili: o cadere in un’inerzia dell’anima quasi pari alla morte (come la maggior parte degli schiavi dell’impero romano), o gettarsi in un’attività che tende sempre a sradicare, spesso con metodi violentissimi, coloro che non lo sono ancora o che lo sono in parte.”[6]

Ma dove nasceva lo sradicamento? Nasceva nel contesto della fabbrica, all’interno della   operaia di cui Weil aveva fatto parte, uomini e donne costrette a lavori usuranti, cadenzati e ritmati, dalla monotonia dei gesti e dall’incessante frastuono tutto attorno, azioni per le quali non era prevista specializzazione ma solo ripetizioni sempre uguali per le otto ore di lavoro, movimenti che originavano perdita di pensiero[7]. L’aveva appreso sulla sua pelle, essendo rimasta nel solco della sua caratteristica, rimanere fedele a sé stessa; per capire le reali condizioni di lavoro manuale, si era fatta assumere nelle grandi fabbriche metalmeccaniche, prendendo altresì in affitto una chambre de bonne nei dintorni, dove aveva predisposto il Journal d’usine, un diario delle sue giornate lavorative, e ogni sera dopo il lavoro, settimana dopo settimana, documentava l’organizzazione e la produzione della fabbrica, i dialoghi coi compagni di lavoro, i racconti delle loro vite, aspirazioni e hobby, i suoi bagagli emotivi e le emicranie, i duri rapporti coi capisquadra e le gelosie tra operai, ma anche i momenti di gioia, quando allo stremo delle forze non riuscendo più a sollevare il macchinario riceveva un inaspettato aiuto. Queste dense pagine inframezzate da riflessioni sul senso del vivere quell’esperienza, l’avevano portata a capire che lo sradicamento era nato nel lavoro a cottimo di fabbrica. Scrive Canciani:

“nella fabbrica sperimenta un sentimento d’umiliazione e di annientamento così grande da provocare in lei una trasformazione nel modo stesso di percepire la realtà. Quando lascia la fabbrica, il mondo non è più percepito allo stesso modo: la sventura umana, nella dimensione collettiva, è entrata nella sua carne. L’esperienza della schiavitù, che è il modo specifico in cui la sventura si manifesta in fabbrica, diviene un riferimento costante nei suoi scritti: da quelli di carattere politico e sindacale a quelli più esplicitamente religiosi e mistici”[8]

Simone Weil come i suoi compagni aveva conosciuto spogliatoi gelati, il freddo delle postazioni e correnti d’aria così pungenti da rallentarne il lavoro; sforzi fisici e mani scorticate, l’umiliazione morale per aver sbagliato un pezzo e continuare il lavoro impaurita “tremando tutta” dopo le urla del caposquadra[9]; in tutto questo l’indifferenza della società esterna, percepita lontana, come se la condizione operaia facesse parte di un altro mondo dove gli individui erano insignificanti, defraudati della dignità personale, ridotti in schiavitù, aventi una vita meno degna d’esser vissuta. Condizioni che ci rammentano lo stato a cui gli indigeni dovevano essere sottoposti. Il tentativo dell’individuo era pertanto riuscire a conservare la propria dignità e coscienza intatte, come lei stessa scrive:

“Per poco non mi sono spezzata. Per poco il mio coraggio, la coscienza della mia dignità sono stati quasi distrutti durante un periodo il cui ricordo mi umilierebbe; ma, letteralmente, non ne ho conservata memoria. Al destarmi, l’angoscia; andando in fabbrica, paura; lavoravo come una schiava; la pausa di mezzogiorno mi straziava; ritornavo a casa alle 5,45, preoccupata subito di dormire a sufficienza (cosa che non riuscivo a fare) e di risvegliarmi abbastanza di buon’ora. Il tempo m’era diventato un peso intollerabile. Il timore, la paura, di quel che sarebbe venuto dopo cessavano di stringermi il cuore solo il sabato pomeriggio e la domenica mattina. E l’oggetto del timore erano gli ordini. La coscienza della dignità personale, quale la società l’ha costruita, è spezzata. Bisogna farsene un’altra (benché lo sfinimento spenga la coscienza della propria medesima facoltà di pensare!). Sforzarmi di conservare quell’altra coscienza.”[10]

Uno dei suoi pensieri era indirizzato alla debolezza fisica, forse perché era una condizione a cui era soggetta, e riguardandola sin da bambina[11] la conosceva bene:

“Non sono tanto lontana dal pensare che la salvezza dell’anima di un operaio dipenda anzitutto dalla sua costituzione fisica. Non riesco ad immaginare come quelli che non sono robusti possano evitare di cadere in una qualsiasi forma di disperazione – ubriachezza, o vagabondaggio, o delitto, o vizio, o semplicemente, e assai più spesso, abbrutimento.”[12]

Uno stato di debolezza e carenza di energia avrebbe reso impossibile svolgere mansioni pesanti o usuranti; la mancanza di forza muscolare e la sensazione di non essere in grado, d’aver bisogno uno sforzo supplementare per muovere il corpo, avrebbe reso impossibile compiere i normali gesti che le altre persone in buona salute e con una tempra più forte potevano svolgere. Anche una semplice malattia, come una bronchite, impediva d’esser veloci nel lavoro, ed essendo pagati a cottimo significava rimanere presto disoccupati (nelle colonie, uno stato di questo genere in un raccoglitore equivaleva a morte certa: nessuno lo avrebbe curato e inoltre non produceva).

Trovo interessante il suo parlare dell’angoscia in riferimento alla mancanza di forza fisica, tanto insopportabile al punto di cedere, oppure di abusare di alcol e sostanze stimolanti per aiutarsi a sopportare le dure prove, vedendo la distruzione e l’annientamento da fronteggiare, che portavano inevitabilmente con se una perdita di speranza. Anche Weil da giovane era stata una grande fumatrice: chissà se il fumo non le servisse a sopportare i suoi tormenti.[13] Dunque, il problema dello sradicamento era la fabbrica come luogo alieno, dove nessuno si sentiva “a casa” e a causa dei movimenti meccanici e dell’ambiente che abbruttiva (dal quale lei stessa usciva tale) le persone non vedevano l’ora di andarsene. Weil scrisse d’aver:

«tratto due insegnamenti dalla sua esperienza: il primo, più amaro e impreveduto, [é] che l’oppressione, a partire da un certo grado di intensità, non genera una tendenza alla rivolta bensì una tendenza quasi irresistibile alla più assoluta sottomissione. (…) Il secondo che l’umanità si divide in due categorie: le persone che contano qualcosa e le persone che non contano nulla. Quando si appartiene alla seconda categoria si arriva a trovare naturale di non contare nulla, il che non significa che non si soffra.”[14]

Era necessaria una trasformazione della fabbrica. Si adoperava scrivendo lettere ai capi dove progettava soluzioni, parlava con gli operai, chiedeva loro di mettere per iscritto pensieri e sentimenti per non tener tutto dentro (se non altro avrebbero avuto una valvola di sfogo). Ma questo non risolveva il vivere da sradicati: l’operaio si sentiva estraneo rispetto al funzionamento della macchina: erano loro le protagoniste. Le macchine sfornavano pezzi e la presenza degli operai era richiesta solo in virtù di un servizio alla macchina, mentre agli individui sarebbe servito un posto di lavoro bello dove si sentissero utili. Serviva più bellezza e poesia, come scrive J.P. Little:

“a worker’s life is experienced as monotony, there is one thing only that can make that monotony acceptable, and that is beauty, poetry, not the poetry expressed in words, but the poetry of the worker’s everyday life. Working people need this poetry as much as they need bread.”[15]

Weil spende molte pagine del suo testo sulla condizione operaia nel descrivere cosa comportava il nuovo metodo di lavoro importato dagli Stati Uniti. La nuova invenzione di F. W. Taylor “organizzazione scientifica del lavoro”, il taylorismo,[16] mi ha ricordato Adriano Olivetti: era partito per il suo viaggio di lavoro in America dove avrebbe voluto apprendere i nuovi diversi metodi di produzione, ma tornò cambiato. Si era convinto che la fabbrica e il lavoro umanizzato dovessero essere la nuova vera via da percorrere (in piena antitesi con quanto visto!), avendo compreso che cronometrare il lavoro, gesti monotoni e un’opposizione uomo-macchina erano nel complesso una nuova forma di schiavitù. Vedeva le unità industriali e le cooperative agricole come parte del tessuto sociale, una parte della polis, perciò non potevano essere mere strutture economiche: gli scopi dell’industria non potevano ridursi ad assicurare l’indice dei profitti; dovevano invece riscoprire la loro vera vocazione di organismi sociali, ai quali gli individui avrebbero partecipato in sinergia, concorrendo alla vita l’uno dell’altra. Serviva più bellezza e relazione attorno:[17] fabbriche belle da vedere, ambienti puliti ed efficienti, ambienti dove le persone avrebbero potuto finalmente sentirsi parte, diventando “l’espressione compiuta del radicamento dell’uomo nel proprio territorio e nella propria vita” come scrive Canciani nel suo articolo.[18]

Dato che Weil concepiva tutti rapporti umani (e quindi anche quelli i capi) su un piano paritario,[19] immagino che avrebbe trovato in Adriano Olivetti il dialogo che cercava.[20] Oggi si direbbe un “manager illuminato”. Desiderava creare la fabbrica descritta dalla filosofa, dove gli operai potevano sentirsi “a casa” e avrebbero orgogliosamente portato la famiglia a vedere il posto di lavoro. Canciani cita il pensiero contiguo di Weil e Olivetti:

«Che cos’è una fabbrica comunitaria? – si domanda [Olivetti]. È un luogo di lavoro ove alberga la giustizia, ove domina il progresso, dove si fa luce la bellezza, nei dintorni della quale l’amore, la carità, la tolleranza sono nomi e voci non prive di senso». E più avanti aggiunge: «La gioia nel lavoro, oggi negata al più gran numero di lavoratori dell’industria moderna, potrà finalmente sorgere di nuovo quando il lavoratore capirà che il suo sforzo, la sua fatica, il suo sacrificio – che pur sempre sarà sacrificio – è materialmente e spiritualmente legato a un’entità nobile e umana che è in grado di percepire, misurare, controllare, poiché il suo lavoro servirà a far vivere questa Comunità viva, reale, tangibile, laddove egli ed i suoi figli hanno vita, legami, interessi»[21]

Nelle «Esperienze della vita di fabbrica» Simone Weil aveva scritto:

«La fabbrica dovrebbe essere un luogo di gioia, dove se anche è inevitabile che il corpo e l’anima soffrano, tuttavia l’anima possa gustare la gioia, nutrirsi di gioia.»[22]

Sono pochi i posti di lavoro così, ma ce ne sono ancora: ne conosco qualcuno.

Leggendo i particolari del Journal d’usine sono tornata coi ricordi a quarant’anni fa, a una delle mie prime esperienze di lavoro. Per qualche tempo mia sorella ed io lavorammo in “Confezione”[23], un’attività famigliare di manifattura pigiami; era una piccola fabbrica con una ventina di operai, molto diversa dalle grandi fabbriche metalmeccaniche: nella provincia milanese le attività economiche erano in prevalenza a conduzione familiare.

Il mio lavoro era certamente ripetitivo ma non monotono: piegavo e imbustavo pigiami e camicie da notte controllandoli perché non avessero difetti, mettendoli ordinatamente in cartoni disposti su pallet, pronti per lo stoccaggio in magazzino (lavori che oggi farebbero le macchine con produzione delocalizzata in Cina, Turchia, Egitto). Mia sorella lavorava su una macchina taglia e cuci, era velocissima, ma anche il suo lavoro non era alienante: i modelli da cucire erano sempre diversi, come diversi i colori e le fasi della lavorazione. Capi da notte di qualità, fatti per durare, d’una moda meno consumistica, di certo più curata ed etica. Vedevamo tutti i passaggi insieme alla passione con cui modelli, tessuti e particolari erano scelti e realizzati. Alcuni capi erano così belli! Era gratificante contribuire a realizzarli. Le macchine rumorose erano coperte dalla filodiffusione radio e la voce dello speaker radiofonico accompagnava la giornata; talvolta, quando il brano era popolare cantavamo tutte insieme. Si è perso questo cantare insieme durante il lavoro: ricordo muratori e imbianchini cantare nei cantieri. Ad ogni modo, i padroni lavoravano con noi, ci supervisionavano, ma non eravamo né controllate né viste come oggetti delle macchine, piuttosto come risorse. Il salario non era un granché, ma non era a cottimo: la dignità umana era conservata e il tempo passava, non era “tempo triste” come alla catena di montaggio dell’Alstrom o della Renault.

Tornando quindi allo sradicamento, era stato dapprima lavorativo, poi coloniale, paragonato da Weil a una malattia di cui la nazione soffriva e infettava il mondo. Ora che la Francia nella nuova contingenza correva il rischio di una guerra e di subire un identico trattamento di colonizzazione da parte di Hitler, poteva ben capire di cosa s’era trattato, prendendo atto della profonda ingiustizia dei rapporti di dominio instaurati tra colonizzato e colonizzatore. Come scrive Canciani:

“I mali che ha provocato – sradicamento linguistico e culturale, perdita del passato, assimilazione forzata o subdola – appaiono evidenti, sono sotto gli occhi di tutti, ma i Francesi purtroppo, sono ancora prigionieri del loro sogno di grandezza, credono ancora, o amano credere, alla favola della colonizzazione apportatrice di benessere e civiltà.”[24]

Le cose non sono poi così cambiate nell’atteggiamento francese verso le loro ex colonie, ancora oggi soggette al franco CFA[25], l’ultima moneta coloniale ancora in uso: tutti gli scambi passano ancora dalla Banca di Francia. Inoltre la Francia continua a dipendere dalle esportazioni delle materie prime (uranio dal Niger, petrolio dal Ciad e Gabon), mancano sempre industrie di trasformazione in loco, e proprio come accadeva durante il colonialismo gli Stati africani con franco CFA commerciano di più con la Francia che fra di loro.[26] L’emancipazione economica e finanziaria è oggetto di discussione politica, ma la richiesta di Weil di pensare al colonialismo lanciata dal suo ufficio di Hill Street a Londra, dove per France Libre era chiamata a pensare nuove basi della ricostruzione post conflitto, non sembra aver avuto seguito. L’incipit de La questione coloniale e il destino del popolo francese ne è la prova:

“il problema di una dottrina o di una fede capaci di ispirare il popolo francese durante la resistenza in corso in Francia e nella costruzione del suo futuro, non può prescindere dal problema della colonizzazione. Un identico spirito deve potersi esprimere nelle relazioni che un popolo ha con coloro che lo hanno soggiogato con la forza, nelle relazioni interne allo stesso popolo e nelle relazioni che intrattiene con coloro che dipendono da lui.”[27]

Per porre la questione coloniale in maniera appropriata Weil indicava tre tentazioni da superare: la prima era il patriottismo, cioè anteporre la propria patria a quella altrui, anche davanti alla giustizia, e scriveva: “Se c’è nella patria qualcosa di sacro, dobbiamo riconoscere che ci sono dei popoli che noi abbiamo privato della loro patria”[28]; la seconda tentazione era il ricorso alle competenze, dove competenti erano naturalmente i coloniali: “Ma essi sono implicati nel problema. A tal punto che se il problema venisse posto a fondo, essi finirebbero sul banco degli accusati”[29] dato il loro giudizio non imparziale; se lasciato il paese lavoravano nelle colonie era perché avevano simpatia per il sistema, ma una volta giunti laggiù, come abbiamo visto, potevano solo peggiorare, infatti la filosofa scrive: “il linguaggio degli indigeni anche più ribelli costituisce un documento meno schiacciante per la colonizzazione di quello rappresentato dai coloniali.”[30] Infine, la terza, la tentazione cristiana. I cristiani amavano la colonizzazione perché la vedevano come “un quadro favorevole alle missioni”[31], mentre i massoni, i laici e gli atei la amavano per la ragione opposta, perché estirpava le religioni, dato che spingeva ad abbandonare la propria religione molto di più di quanti ne acquisivano una nuova. Weil si era convinta che più che la religione avesse portato incredulità e “il veleno dello scetticismo”[32] nelle colonie, oltre che una perdita irreversibile del passato e della cultura dei popoli assoggettati.

“Per colpa nostra dei piccoli polinesiani recitano a scuola: «i nostri antenati galli avevano i capelli biondi e gli occhi azzurri …» Alain Gérbault ha descritto in alcuni libri, molto letti ma senza alcun profitto, come noi facciamo letteralmente morire di tristezza queste popolazioni vietando i loro costumi, le loro abitudini, le loro feste, insomma, tutta la loro gioia di vivere. Per colpa nostra, gli studenti e gli intellettuali annamiti non possono, salvo rare eccezioni, entrare nella biblioteca che custodisce tutti i documenti relativi alla storia del loro paese. L’idea che si fanno del loro paese prima della conquista, la devono ai loro padri. Questa idea, a torto o a ragione, è quella di uno Stato pacifico, saggiamente amministrato, dove l’eccedenza di riso veniva conservata in depositi per essere distribuita in tempo di carestia, contrariamente alla pratica più recente di esportare il riso del sud mentre la carestia fa strage della popolazione del nord.”[33]

A questo punto vorrei provare a introdurre un pensiero diverso sul problema dello sradicamento, che potrebbe forse essere ricondotto a ragioni di tipo personale che portano un uomo a sentirsi di poter disporre della vita e della libertà di un altro uomo, per motivi  che esulano e vanno al di là dell’allargarsi su territori per questioni di prestigio, o di approvvigionamento di materie prime a fini economici. All’origine potrebbe forse trattarsi del temperamento individuale, una molla che mette l’individuo singolo nel pensarsi in condizione di superiorità, come accade ad esempio nei confronti degli animali, una sorta di concupiscenza verso l’indifeso, verso chi si è certi di poter soggiogare perché non si ribellerà, o meglio, non avrà la forza di ribellarsi. Siamo sempre nell’ambito di un esercizio della forza, ma dei motivi personali per i quali la si esercita.

La tendenza a dominare si ritrova talvolta nelle persone molto intelligenti, capaci e abili, che sanno cosa vogliono e sanno anche come ottenerlo. Queste persone sono portate a ritenere di sapere cosa sia meglio anche per gli altri. Essendo mentalmente forti sono in grado di esercitare il potere in modo costruttivo e a fin di bene, ma quando il lato più oscuro e negativo della loro personalità è in eccesso e prende il sopravvento, tendono a diventare dominanti, a imporsi esercitando la loro influenza sulle personalità più deboli o in condizione di fragilità, mediante questa peculiare forza. Il loro aspettarsi obbedienza assoluta non li preoccupa del rapportarsi in modo empatico per conquistare i cuori o le menti altrui, fintanto che sono in una situazione di potere e gli ordini vengono eseguiti. L’attitudine al comando e all’organizzazione delle persone (la dote di leadership), se positiva può essere molto utile in caso di urgenza o di necessità, è assolutamente deleteria in stato di disequilibrio, quando la brama di potere e la prepotenza si manifestano e subentra la superbia, il disprezzo, il sadismo. In uno stato di questo genere si prova piacere ad essere temuti piuttosto che amati: la freddezza e l’insensibilità trovano posto nella violenza. Inoltre questo tipo di personalità ha la capacità di mostrarsi come un'autorità inducendo le persone a considerarla tale, facendo presa su individui aventi poca fiducia nel loro personale giudizio; essi, nel dubbio e nell'incertezza della decisione accettano volentieri consigli, anche eventualmente uniformandosi all’opinione condivisa dalla massa. Alla lunga però, non basando la decisione su quanto andava bene per sé, mediante proprio discernimento e intuizione, trattandosi appunto di decisioni altrui potrebbero rivelarsi inadatte alle proprie esigenze, facendo riaffiorare la condizione d’instabilità iniziale in aggiunta a una frustrazione per l’errore commesso. Similmente al capo carismatico descritto da Carl Schmitt ma sbilanciato in senso basso (per usare una parola cara a Weil) verso il capo totalitario, questo temperamento andrebbe ricondotto nell’alveo di una ragionevolezza persa, da parte di una collettività solida e compatta divenuta cosciente del meccanismo, e perciò in grado di svelare il disequilibrio affrontandolo in maniera coesa. Purtroppo, di solito, la prima condizione va a braccetto con la seconda, complice la propaganda coi mezzi di comunicazione di massa.

Sembrerebbe qui indicato l’invito “Conosci te stesso” di Socrate[34], dal celebre motto inciso sull’ingresso del tempio di Delfi.  Sapere un po’ di più del nostro carattere potrebbe rappresentare l’inizio della possibilità di mettersi al riparo dal desiderio di alcuni di sovrastare genti e popoli, e per iniziare a ‘fare le cose che sono proprie’[35] come descritto nel dialogo giovanile Carmide di Platone. All’inizio dell’opera Socrate, dialogando col giovane Carmide, dirà che la temperanza quand’è presente in un uomo offre di sé una certa percezione, e se è dote presente di natura, si dovrebbe averne opinione.[36] Gli uomini temperanti non ignorano di possedere la temperanza, ne hanno una conoscenza. Inoltre la conoscenza della temperanza si distingue da tutte le altre forme di sapere delle arti particolari perché si colloca nettamente al di sopra di esse; ecco il frammento:

“Infatti è evidente che, se tu possiedi la temperanza, puoi anche esprimere su di essa una tua opinione. Infatti, è necessario che, con la sua presenza, se è veramente presente, offra una certa percezione di sé, dalla quale ti sarebbe possibile formarti una certa opinione al riguardo a che cosa essa è, e quale è la natura della temperanza, o non credi?”[37]

Più importante è il passaggio dove Platone fa dire a Socrate degli incantesimi coi quali l’anima si può curare, e come Giovanni Reale scrive nel saggio iniziale: “essi consistono nella filosofia, la quale educa l’uomo alla temperanza, la virtù che insegna in cosa consista e come si pratichi l’auto-dominio, cioè il dominio dell’anima sul corpo”[38].

«E l’anima, caro, si cura con certi incantesimi, disse, e questi incantesimi sono i bei discorsi, e da questi discorsi nell’anima si genera la temperanza. E una volta che questa sia nata e presente, allora è più facile ridare la salute alla testa e al resto del corpo». ”[39]

Ricollegandomi a quanto scriveva Weil nel suo duro periodo di lavoro in fabbrica:

“L’inconveniente di una situazione di schiavitù è quello di esser tentati di considerare come realmente esistenti esseri umani che sono pallide ombre nella caverna”[40].

Il primo passo dell’oppresso é riconoscere le pallide ombre nella caverna, che si tratti di capisquadra, coloni o tiranni: esseri umani che non usano bei discorsi, che per primi sono sradicati e perciò compiono il male peggiore, lo sradicamento. Il secondo passo è avere a disposizione un maestro, uno come Socrate o Weil, chiari nel comportamento e fedeli a loro stessi, Filosofi che con il loro esempio possono insegnare la filosofia, la quale nel tempo educherà l’individuo alla temperanza e solleverà l’anima dall’oppressione.

Weil si era convinta che Francia ed Europa avrebbero potuto riprendersi dopo la guerra ma soltanto ponendo le basi della rinascita di una società nuova, libera dall’oppressione e fondata sul rispetto. Ma in cosa consisteva questa società libera dall’oppressione? È un ideale sempre valido: il pensiero che corrisponde all’azione (essere fedeli a sé stessi), dove si riesce a pensare in ogni momento, dove l’uomo chiamato all’eternità rispetta il suo prossimo e l’accesso alla verità avviene tramite pensiero. Le persone finalmente messe al centro come fini, e non più come mezzi per ottenere altri scopi.

Il male del colonialismo così come il lavoro a cottimo salariato avevano trattato le persone da mezzi, rubando agli individui loro la vita, un furto con destrezza della possibilità di uno sviluppo armonico della propria personalità.[41] Il radicamento era il presupposto per non soffrire più, per instaurare relazioni che non si basassero più sulla forza  e Simone Weil nella sua opera-manifesto La prima radice per una società ben radicata, propone un originale cambio di prospettiva basato non più sui “Diritti” ma sui “Doveri” degli uomini nei confronti degli altri uomini. Scrive così:

“Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. E’ tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale, tramite gli ambienti a cui appartiene naturalmente.”[42]

Per radicarsi, gli individui nati in un certo luogo e in un certo tempo avevano bisogno di un particolare tipo di nutrimento, “radici multiple” di cui Weil fa un elenco.

Il primo bisogno dell’anima era l’ordine[43], avendo “tutti i giorni sotto gli occhi l’esempio dell’universo, nel quale un’infinità di azioni meccaniche indipendenti concorrono a costituire un ordine che, attraverso le variazioni, resta fisso”, ordine mediante “un tessuto di relazioni sociali” dove ognuno persegue il bene; il secondo bisogno era la libertà di scelta, nell’ambito di una vita rispettosa comune; c’era necessità di ubbidienza a regole prestabilite, ad alcuni esseri umani a capo riconosciuti come tali, e di responsabilità nel senso di sentirsi utili, persino indispensabili; bisogno di uguaglianza, cioè una stessa quantità di rispetto e riguardi tra individui “perché il rispetto è dovuto all’essere umano come tale e non conosce gradi”, e di una vera gerarchia dove i superiori avevano coscienza della loro funzione simbolica, una devozione verso i superiori “simboli di quella sfera che si trova al di sopra di ogni uomo e la cui espressione mondana è costituita dagli obblighi di ogni uomo verso i suoi simili”; e ancora di onore, in relazione a un essere umano considerato non già semplicemente come tale ma nel suo ambiente sociale, dove viene riconosciuto; e anche di punizione in caso di delitto, perché un uomo “posto fuori dalla rete di obblighi eterni che unisce ogni essere umano agli altri” possa esservi reintegrato; vi era poi la libertà di opinione come bisogno assoluto dell’intelligenza, “perché quando l’intelligenza si trova a disagio l’anima soffre”, e la libertà di associazione, insieme alla sicurezza, nel senso che l’anima non deve trovarsi sotto il peso della paura o del terrore, poiché “come durevoli stati d’animo, sono veleni quasi mortali”; serviva anche il rischio, poiché nella sua assenza subentrava una specie di noia apatica che paralizzava; infine la proprietà privata, utile giacché “l’anima è perduta se non è circondata da oggetti che siano per essa come prolungamenti del corpo”, così come serve proprietà collettiva, una partecipazione a beni collettivi come i monumenti, i giardini, le cerimonie; ma l’ultimo argomento era il più caro a Weil: la verità:


“Il bisogno di verità è il più sacro di tutti. Eppure non se ne parla mai. La lettura fa spavento, quando ci si rende conto della quantità e dell’enormità di menzogne materiali, diffuse senza vergogna anche nei libri degli autori più stimati. E così leggiamo come se si bevesse acqua di un pozzo sospetto. (…) L’esigenza più sacra dell’anima umana, [é] l’esigenza di esser protetta dalla suggestione e dall’errore”[44]


In una lettera del 1941 indirizzata alla rivista Les Cahier du Sud sulle responsabilità della letteratura, imputava la sventura della Francia (e del mondo intero) agli scrittori dell’epoca trascorsa; dato l’immenso prestigio della letteratura riteneva gli scrittori direttamente responsabili dell’indebolimento e d’un venir meno della nozione di “valore” nella cultura, come di una perdita estrema di significato e dunque di verità.


“Questo fenomeno si è manifestato in numerosi campi estranei alla letteratura, anzi in tutti. La sostituzione della qualità con la quantità nella produzione industriale, il discredito in cui è caduto il lavoro qualificato negli ambienti operai, la sostituzione della cultura con i diplomi quale scopo degli studi fra la popolazione studentesca ne sono alcune espressioni. La scienza stessa non possiede più nessun criterio di valore da quando ha abbandonato la scienza classica. Ma gli scrittori erano per eccellenza i guardiani del tesoro che è andato perso, e alcuni si sono vantati di questa perdita.”[45]


A questo proposito si era convinta che fosse necessario imparare ad amare la verità fin dalla scuola, sin dalla tenera età perché: “non è possibile soddisfare l’esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si trovino uomini che amino la verità.”[46]





[1] Ibidem

[2] Ibidem

[3] Ivi, p. 55.

[4] S. Weil, “I nuovi aspetti del problema coloniale nell’Impero Francese”, in La colonizzazione e il destino dell’Europa, cit., pp. 75-76.

[5] Domenico Canciani, “Simone Weil. Il male dell’Occidente: lo sradicamento”, in DEP Deportate, Esuli, Profughe, Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, n. 21/2013, p. 64.

[6] S. Weil, La prima radice, cit. p.52

[7] Cfr. S. Weil, La condizione operaia, cit., a p. 35 a questo proposito l’autrice scriveva: “Lo sfinimento finisce per farmi dimenticare le vere ragioni della mia permanenza in fabbrica, rendendomi quasi insuperabile la tentazione più forte che questa vita comporta: quella di non pensare più, solo e unico modo per non soffrirne. Solo il sabato pomeriggio e la domenica mi ritornano dei ricordi, dei brandelli di idee, mi ricordo che sono anche un essere pensante. Spavento che mi afferra constatando la dipendenza nella quale mi trovo rispetto alle circostanze esteriori: sarebbe sufficiente che un giorno mi costringessero ad un lavoro senza riposo settimanale – cosa dopo tutto possibile – e diventerei una bestia da soma, docile e rassegnata. (almeno per quel che mi riguarda)”

[8] D. Canciani, “Simone Weil. Il male dell’Occidente: lo sradicamento”, in DEP Deportate, Esuli, Profughe, cit., p. 65.

[9] S. Weil, La condizione operaia, cit., p. 31.

[10] Ivi, p. 94.

[11] Cfr. S. Weil, “Lettera a un’allieva (1935)”, in La condizione operaia, cit., p. 133, Weil scriveva a una delle sue allieve del liceo femminile di Le Puy: “Mi sono accorta in fabbrica come è paralizzante e umiliante mancar di forza, di destrezza, di sicurezza nel colpo d’occhio. Disgraziatamente per me, nulla può supplire in questo campo quel che non si è acquisito prima dei vent’anni. Non ti raccomanderò mai abbastanza di esercitare più che puoi i tuoi muscoli, le tue mani, gli occhi. Senza un esercizio simile, ci si sente stranamente incompleti.”

[12] Ivi, p. 35.

[13] Cfr. S. Pétrement, La vita di Simone Weil, Traduzione di Efrem Cierlini, Adelphi, Milano, 1994, p. 73, si legge: “M.me Letourneux si irritava anche perché fumava troppo, ma Simone non riusciva a studiare senza fumare.”

[14] S. Weil, La condizione operaia, cit., p. 153.

[15] Ronald Collins & J.P. Little, Weil’s Single-Minded Commitment to Truth: A Q & A Interview with J. P. Little, in «Attention» (2021) https://attentionsw.org/weils-single-minded-commitment-to-truth-a-q-a-interview-with-j-p-little/

[16] Cfr. S. Weil, La condizione operaia, cit., a p. 237 Weil ricorda Frederick Winslow Taylor (1856-1915; imprenditore statunitense, inventore del metodo che da lui ha preso in nome), così: “Era un caposquadra, ma non della specie di quelli che sono venuti su dalla classe operaia e ne hanno conservato il ricordo. Era del tipo di quelli di cui se ne trovano degli esemplari attualmente nei sindacati professionali dei tecnici, che si credono nati per fare i cani da guardia dei padroni.”

[17] Cfr. S. Weil, Quaderni, Volume I, a cura e con un saggio di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano (1982), a p. 191 si legge: “il bello è l’unico criterio di valore nella vita umana. Il solo che si possa applicare a tutti gli uomini.”

[18]Domenico Canciani, Simone Weil nella lettura di Adriano Olivetti, industriale “sovversivo”. Macondo, Associazione per l’incontro e la comunicazione tra i popoli, (2020), «Macondo» https://www.macondo.it/2020/simone-weil-nella-lettura-di-adriano-olivetti-industriale-sovversivo/

[19] Cfr. S. Weil, La condizione operaia, cit., a p. 152 Weil scriveva: “concepisco i rapporti umani solo sul piano dell’uguaglianza; dal momento in cui taluno comincia a trattarmi da inferiore, nessun rapporto umano è più possibile fra lui e me, ed io lo tratto a mia volta come un superiore, vale a dire subisco il suo potere come subirei il freddo o la pioggia.”

[20] Se in Francia era stato Albert Camus a far conoscere le sue opere, in Italia era stato Adriano Olivetti a pubblicare i suoi scritti, inizialmente tramite la rivista interna alle “Edizioni di Comunità”, casa editrice da lui fondata negli anni ‘40.

[21] La Fabbrica e la Comunità, Rivista, Movimento Comunità, Ivrea, p. 13-19.

[22] Simone Weil, La condizione operaia, cit., p. 272.

[23] Lavorare in “Confezione” era un posto di lavoro ambito nei paesi di provincia, ma bisognava essere veloci nel lavoro per essere assunti: anche allora era questione di produttività.

[24] S. Weil, Sul colonialismo, Verso un incontro tra Occidente e Oriente, cit., p. 10.

[25] Al momento della sua creazione, l’acronimo significava “Franco delle colonie francesi d’Africa”. Oggi invece si parla di “Franco della Comunità finanziaria dell’UEMOA” e di “Franco della Cooperazione finanziaria dei Paesi CEMAC”. La valuta è ancorata all’euro secondo una parità fissa decisa dalla Francia. In cambio, i Paesi che l’adottano sono obbligati a depositare il 50% delle loro riserve valutarie presso il Tesoro di Parigi. https://valori.it/franco-cfa-retaggio-coloniale-ma-anche-garanzia-per-chi-lo-adotta/

[26] https://www.pandorarivista.it/articoli/franco-cfa/

[27] S. Weil, Sul colonialismo, Verso un incontro tra Occidente e Oriente, cit., p. 43.

[28] Ibidem

[29] Ivi, p. 45.

[30] Ibidem

[31] Ivi, p. 47.

[32] Ivi, p. 48.

[33] Ivi, p. 54.

[34] Platone, Alcibiade Primo Alcibiade Secondo, tr. it. di Donatella Puliga, BUR Classici Rizzoli, (2021), (124-b), p. 109.

[35] Platone, Carmide sulla temperanza, tr. it di Giovanni Reale, Bompiani, Milano, (2022), p.74 “La temperanza consiste nel far le cose che sono proprie” (161D)

[36] Ivi, p. 50

[37] Ivi, p. 171 (159 A)

[38] Ivi, p. 112.

[39] Ivi, p. 163 (157 A-B)

[40] S. Weil, La condizione operaia, cit., p. 70.

[41] Ivi, p. 126, Weil descriveva le sue emozioni: “una docilità da bestia da soma. Mi pareva di esser nata per aspettare, per ricevere, per eseguire ordini – di non aver mai fatto altro che questo. Non sono fiera di confessarlo. È quel genere di sofferenza di cui non parla nessun operaio; fa troppo male solo a pensarci.”

[42] S. Weil, La prima radice, cit., p. 49.

[43] Ivi, 1990, pp. 19-42


[44] Ivi, p. 43

[45] S. Weil, La persona e il Sacro, a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi, Milano, (2012) p. 15.

[46] Ivi, p.45