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di Valeria Ballarati

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TESI 3 Dall'oppressione alla cura dell'altro: vie possibili 3.1 cercare la verità

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Capitolo 3 - Dall'oppressione alla cura dell'altro: vie possibili

Qu’on ne dit pas que je n’ai rien dit de nouveau:

la disposition des matières est nouvelle;

quand on joue a la paume,

c’est une même balle dont on joue l’un et l’autre,

mais l’un la place mieux.

Pensée 65 – Blaise Pascal[1]

3.1 Cercare la verità (e il Bene)

La ricerca della verità era la vocazione centrale in Simone Weil. Nel cercarla come nutrimento della mente Weil andava dritta al punto: era essenziale informarsi ma l’informazione disponibile doveva fornire esclusivamente elementi utili ai fruitori, indicando concetti e idee, e rappresentando eventi reali da cui ricavare esperienze o formarsi le opinioni; se l’informazione rilasciata era erronea, inesatta o imprecisa si fuorviavano i pensieri di chi leggeva fiducioso:

“Al libro che leggono, essi prestano fede. Non abbiamo il diritto di nutrirli di menzogne.”[2]


Riteneva inaccettabile trovare errori nei testi, “menzogne” come ella li definiva, considerando che nemmeno la buona fede degli autori poteva essere invocata quale giustificazione ammissibile[3]. Libri, giornali, pubblicazioni non facenti adeguatamente il proprio lavoro erano colpevoli di non rendere un buon servizio alla verità e li apostrofava con l’immagine del bere acqua di pozzo sospetto. La sua preoccupazione era (come sempre) rivolta a quanti sarebbero rimasti coinvolti dal pensiero menzognero, i lavoratori che la sera “facevano l’enorme sforzo di leggere per istruirsi”[4] non potendo verificare di persona le informazioni, o condurre ricerche in proprio nelle biblioteche; la responsabilità nelle mani di intellettuali, scrittori, autori, giornalisti era di tipo sociale. Desiderava rimarcare la necessità di comportamenti rispettosi anche in letteratura, testi che non abusassero della fiducia riposta, inducendo corrette attività nella condotta della carta stampata nei confronti dei lettori. Sempre nella lettera del ’41, inerente Les Cahier du Sud sulle responsabilità della letteratura scriveva:

“Ci sono state, negli ultimi anni, bassezze incredibili, come talune consultazioni sentimentali accordate da scrittori conosciuti. Senza dubbio non tutti si abbassavano così; tutt'altro. Ma quelli che si abbassavano così non venivano né sconfessati né respinti dagli altri; non perdevano la considerazione dei loro pari. Tale facilità dei costumi letterari, quel tollerare la bassezza conferisce ai nostri scrittori più eminenti, una responsabilità[5]

Leggere era attività preziosa e basilare per gli esseri umani, dava modo di acquisire nuove conoscenze e informazioni ampliando la propria comprensione del mondo, era il primo passo per capire e discutere di un argomento, esprimere la propria opinione con cognizione o valutare tra le diverse opzioni per prendere decisioni consapevoli. Riteneva vergognoso anche il solo “tollerare l’esistenza di giornali dove – e tutti lo sanno - un redattore non può lavorare se non consente talvolta di alterare scientemente la verità”[6] essendo un doppio tradimento: della professione e del lettore. I veri titolari del diritto all’informazione erano i cittadini, pertanto il fine di un giornale non poteva che essere un contributo alla formazione di cittadini consapevoli di diritti e doveri, nel tempo che vivevano, nelle società nelle quali agivano. E Weil parlava invece di una diffidenza del pubblico verso i giornali, sapendo che contenevano un misto di verità e menzogne distribuite casualmente a seconda delle preferenze della testata, ritenendo il giornalismo confuso con l’organizzazione della menzogna un delitto da punire anche con la prigione: “la galera in caso di frequente recidiva, aggravata da palese malafede.”[7] La sua difesa del pensiero esatto e giusto e il richiamo all’etica della professione era inteso come cura dell’altro, a salvaguardia d’una esigenza dell’anima del lettore-lavoratore, quella dell’essere indotta in errore[8].

La difesa della verità e del bene sono l’oggetto del breve saggio Appunti sulla soppressione dei partiti politici[9], pubblicato nel 1951 dalla rivista “Comunità” di Adriano Olivetti. La filosofa scriveva che non potevano esistere tanti beni o molte verità, ma sempre e solo un’unica verità, un unico bene:

“solo ciò che è giusto è legittimo. Il delitto e la menzogna non lo sono mai. (…) la verità è una sola. La giustizia è una sola. Gli errori, le ingiustizie variano all’infinito. Parimenti gli uomini convergono nel giusto e nel vero, mentre la menzogna e il delitto li fanno indefinitamente divergere”[10]

Avrebbe sperato di trovare nell’unione delle persone una forza materiale, un mezzo adatto a rendere la verità e la giustizia materialmente più forti nel mondano rispetto al delitto e all’errore, ma dopo aver analizzato il funzionamento dei partiti politici scrisse che erano da eliminare: inutili alla società. Motivava questa sua affermazione, forse grazie alla sua lunga esperienza militante nel sindacato, indicando che le decisioni all’interno di un partito vengono prese sulla base delle persone che li compongono, e non sulla base di decisioni veramente politiche per tutti; si mirava più di tutto alla sopravvivenza del gruppo, a mantenere un certo potere nei confronti del potere degli altri partiti, a esercitando pressione sul pensiero dei propri membri con l’annessa attitudine al fabbricare passione collettiva in vista di un potenziamento illimitato. Il bene collettivo (il fine) come sempre si rovesciava divenendo mezzo: avendo “un criterio del bene diverso dal bene, si perdeva la nozione di bene.”[11]

Un passaggio significativo sulla nozione di verità si trova nelle pagine successive, dove la filosofa afferma che desiderare la verità é sufficiente ad elevare l’anima inondandola di luce.

“Non vi è che una risposta. La verità sono i pensieri che sorgono nello spirito di una creatura pensante desiderosa totalmente, esclusivamente della verità. La menzogna, l’errore – termini equivalenti – sono i pensieri di coloro che non desiderano la verità, di coloro che desiderano la verità più qualche altra cosa.”[12]

La verità andava desiderata di per sé: era necessario riconoscere che fosse UNA, ed esigeva “fedeltà esclusiva alla luce interiore”. Chi non l’accettava, chi non le era fedele, era destinato alle tenebre.

“Un uomo che non ha deciso di essere esclusivamente fedele alla luce interiore stabilisce la menzogna nel centro stesso dell’anima. Le tenebre interiori ne sono la punizione”. [13]

Sebbene ne parlasse in riferimento ai partiti politici, questa concezione della verità è generalmente valida: non attenersi alla verità (la luce) stabilisce la menzogna (le tenebre) nel centro stesso dell’anima (il nucleo dell’individuo) e sembra originare almeno una parte della sofferenza umana, che come un velo oscuro avvolge l’essere interiore tanto quanto l’esistenza esteriore, manifestandosi in modi diversi, come vivere un’esistenza confusa nell’incapacità di trovare la propria direzione, avendo rimpianti o sensi di colpa per le azioni lontane dalla verità, finanche sentire un senso di solitudine, di tristezza e vuoto, colmabile (forse) riconoscendo l’oscurità che l’ha generato.

Fanno qui eco i temi di bene e anima, ingiustizia e opinioni collettive, trattati nel dialogo socratico Critone, dal nome di uno dei discepoli più fedeli a Socrate il quale non accettando la sua imminente morte, né una condanna che ritiene ingiusta, va a trovarlo in carcere proponendo la fuga, forte dei valori condivisi nell’Atene antica (attenersi all’opinione dei più, far bene agli amici far male ai nemici). Ma Socrate gli ricorda i veri valori a cui si ispira: è l’ingiustizia la maggior causa di danno per l'anima!

“Se non gli daremo retta, corromperemo e danneggeremo quella parte [l'anima] che con la giustizia diventa migliore, e con l’ingiustizia si corrompe. (…) Dunque, ottimo uomo, non dobbiamo assolutamente darci così tanto pensiero di ciò che i più diranno di noi, ma di ciò che dirà colui che è competente riguardo al giusto e all’ingiusto, lui solo e la verità stessa.”[14]

Sappiamo che Socrate formulava un radicale divieto di commettere ingiustizia, anche nel caso di un’ingiustizia subita, in continuità con la tesi che commetterla era peggio che subirla (Gorgia 469b); riteneva il più infelice chi possedeva un’anima malata e non la curava, mentre la persona più felice

“quella che non ha nessun male nell’anima, poiché s’è detto che il male dell’anima è il peggiore di tutti.”[15]

Ancora un desiderio di verità[16] emerge nelle lettere al Padre domenicano Joseph-Marie Perrin, incontrato nell’estate del ’41 a Marsiglia, mentre cercava lavoro nelle campagne e lo trova grazie al suo intervento alla fattoria di Gustave Thibon[17]. Considerava Padre Perrin la sua guida spirituale. Nella lettera a lui indirizzata e intitolata Autobiografia spirituale, analizzando il suo avvicinamento alla religione disse d’aver mantenuto sempre un atteggiamento cristiano, cioè vivendo in spirito di povertà e carità; pensava che gli atti personali l’avrebbero condotta nel “regno trascendente ove entrano solo gli uomini di autentica grandezza e ove abita la verità”[18]. Aveva avuto un’illuminazione:

“Dopo mesi di tenebre interiori, all’improvviso e per sempre ho avuto la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono quasi nulle, penetra nel regno della verità riservato al genio, se solo desidera la verità e fa un perpetuo sforzo d’attenzione per attingerla. Così diventa anch’esso un genio, benché per mancanza di talento questo genio non traspaia all’esterno.”[19]

Pur nell’incertezza e nella sventura di quaggiù[20], per avere accesso alla verità c’era solo bisogno di un essere umano desideroso di verità; il concetto comprendeva la bellezza, la virtù, ogni sorta di bene.  Weil identificava il sentiero per la verità nella “via dell’alto” ma “credere” non era riflettere sul soprannaturale per definizione inconoscibile, inaccessibile al pensiero finito degli individui; era invece capire che la realtà era «amore» e per questa ragione bisognava comportarsi di conseguenza. C’era un piano collettivo ma anche individuale: l’accesso alla verità avveniva col pensiero, presupponeva l’attesa e il lasciare ogni occupazione per dedicarsi con attenzione ad attendere quanto sarebbe arrivato. Maria Concetta Sala nell’introduzione a Attesa di Dio scrive:

“Alla creatura è dato di soggiacere alla necessità e insieme di aspirare al bene, essere in balia del tempo e insieme dirigere il proprio desiderio fuori dal tempo; è cozzando di continuo contro l’impossibilità, contro una porta chiusa, contro un limite che è possibile varcare le soglie, ma occorre che l’anima rimanga umilmente attenta, immobile e imperturbabile attraverso la notte della carne e la notte dello spirito. Occorre, in altre parole, che essa rimanga in attesa, e l’attesa «porterà frutti».”[21]

A proposito di soglie: Weil era credente ma rimase sempre sulla soglia della chiesa cristiana,[22] “senza spostarsi, immobile”[23]. Non sopportava avvicinarsi a una chiesa che s’arrogava l’esclusività dei dogmi, l’avrebbe voluta più aperta alle esperienze spirituali (come nelle richieste del modernismo[24]) data l’incapacità di valorizzare le altre culture e religioni, manifestata con la violenza nei secoli passati, tra Crociate e Inquisizione.

“Tante cose ne restano fuori, tante cose da me amate che non voglio abbandonare, tante cose amate da Dio, perché altrimenti sarebbero prive di esistenza. Tutta l’immensa distesa dei secoli passati, eccetto gli ultimi venti; tutti i paesi abitati da razze di colore; tutta la vita profana nei paesi di razza bianca; e nella storia di questi ultimi tutte le tradizioni accusate di eresia, come la tradizione manichea e quella albigese.”[25]

Pensava che ogni religione fosse vera e non aveva senso convertirsi perché chiunque avesse praticato una religione – il Principio di verità era comune a tutte - avrebbe ottenuto salvezza. Rimproverava alla chiesa di lasciar fuori tutte le spiritualità diverse dalla sua: Weil era per un universalismo religioso, trovava un’identità profonda nascosta nelle differenze linguistiche e culturali. Sosteneva che ogni tradizione religiosa autentica era il riflesso di una stessa verità e perciò erano tutte ugualmente preziose: la luce veniva dispensata a ogni uomo dall’interno del proprio credo religioso.

Ne La prima radice auspicava il moltiplicarsi di comunità vive e calde nella loro lingua, tradizione e passato perché ognuna aveva il proprio spazio modellato nel tempo e nelle scritture, non doveva rivendicare una verità valida per tutti ma riconoscere che anche negli altri luoghi brillava la luce, che il messaggio era valido in ogni tempo, in ogni luogo e per ogni uomo: ogni terra avrebbe pertanto ricevuto una semenza da germogliare. Il limite della religione era il fare da tramite di tipo pedagogico, per accompagnare, ma non poteva di certo sostituirsi né alla coscienza né al senso del divino presente a ognuno.

Simone Weil trovò l’incontro che non aveva previsto in Italia, ad Assisi nel 1937:

«Mentre mi trovavo da sola nella piccola cappella romanica del secolo XII di Santa Maria degli Angeli, incomparabile miracolo di purezza, dove san Francesco ha pregato tanto spesso, per la prima volta nella mia vita qualcosa più forte di me mi ha obbligata a mettermi in ginocchio».[26]

Ma anche l’anno successivo, nel trascorrere la Settimana santa all’abbazia di Solesmes, incontra un giovane inglese che gli rivela l’esistenza dei poeti metafisici inglesi del ‘600. Scopre la poesia Amore di George Herbert, la impara a memoria e la recita con attenzione nei momenti culminanti delle sue violente crisi di mal di testa; sarà proprio in uno di questi momenti che, leggendola come una bella poesia, a sua insaputa con la virtù di una preghiera, scrisse che “il Cristo stesso è disceso e mi ha presa”[27].

Di seguito il testo della poesia di George Herbert (1593-1633):[28]

AMORE


Amore mi diede il benvenuto: eppure la mia anima si ritrasse

Colpevole di polvere e di peccato.

Ma amore dall’occhio pronto, vedendomi esitare

Da quando ero entrato

Più vicino a me si fece, con dolcezza chiedendo

Se di nulla avessi bisogno.


Di un ospite, risposi, degno di stare qui:

Amore disse, tu sarai quello.

Io, il meschino, l’ingrato? Ah mio diletto,

di guardarti non sono degno.

Amore mi prese per mano, e sorridendo rispose,

Chi ha fatto gli occhi se non io?


E’ vero Signore, ma li ho sciupati: lascia la mia vergogna

Fuggire dove merita.

E non sai, dice Amore, chi prese su di sé la colpa?

Mio diletto, allora io servirò.

Devi sederti, dice Amore, e assaggiare il mio cibo:

Così sedetti e mangiai.



LOVE


Love bade me welcome. Yet my soul drew back

Guilty of dust and sin.

But quick-eyed Love, observing me grow slack

From my first entrance in,

Drew nearer to me, sweetly questioning,

If I lacked any thing.


A guest, I answered, worthy to be here:

Love said, You shall be he.

I the unkind, ungrateful? Ah my dear,

I cannot look on thee.

Love took my hand, and smiling did reply,

Who made the eyes but I?


Truth Lord, but I have marred them: let my shame

Go where it doth deserve.

And know you not, says Love, who bore the blame?

My dear, then I will serve.

You must sit down, says Love, and taste my meat:

So I did sit and eat.


George Herbert (1593-1633)






[1] Blaise Pascal, Pensieri, tr. it. di Adriano Bausola e Remo Tapella, Bompiani (2017), a p. 52 si legge che Jeu de Paume, Pallacorda, è un gioco medievale antenato del tennis. “Che non si dica che non ho detto nulla di nuovo: la disposizione della materia è nuova; quando si gioca a pallacorda è la stessa palla con cui giochiamo entrambi, ma uno la piazza meglio.”

[2] S. Weil, La prima radice, cit., p. 42.

[3] Ibidem. Weil scrive: “un addetto agli scambi che abbia provocato un deragliamento troverebbe una pessima accoglienza se volesse scusarsi dicendo di essere stato in buona fede.”

[4] Ibidem

[5] S. Weil, La persona e il sacro, cit., p.15.

[6] Ibidem

[7] Ivi, p. 43.

[8] Ibidem. A questo proposito Weil scrisse: “L’esigenza più sacra dell’anima umana, [é] l’esigenza di esser protetta dalla suggestione e dall’errore”

[9] Tradotto e pubblicato per la prima volta nel 1951, nel n.10 della rivista “Comunità”, organo del Movimento Comunità fondato da Adriano Olivetti rimase inosservato: era troppo in anticipo sui tempi.

[10] S. Weil, Appunti sulla soppressione dei partiti politici, cit., pp. 28-29.

[11] Ivi, p. 42.

[12] Ivi, p. 50.

[13] Ivi, p. 47.

[14] Platone, Eutifrone Apologia di Socrate Critone, a cura di Bruno Centrone e Angelica Taglia, Einaudi Torino (2016), p. 271 (47d-48a ). Il competente è chi s’intende della materia di cui si occupa; Platone ricorre nei suoi scritti all’esempio del maestro di ginnastica e del medico, i quali si occupano entrambi della cura del corpo ma l’uno lo mantiene in salute a priori, con esercizi fisici; l’altro ripristina la salute a posteriori, una volta insorta la malattia. Alla salute dell’anima provvedono invece le due forme della politica: la legislazione (normatrice) e la giustizia (correttiva). La malattia dell’anima deriva dall’ingiustizia, deve essere corretta con la punizione (un riscatto morale), che estingue la colpa restituendo il colpevole alla comunità, concetto moderno auspicato da Weil stessa ne La prima radice, cit., p. 28. “Come il solo modo di testimoniare rispetto a chi soffra la fame è dargli da mangiare, così l’unico modo di testimoniare rispetto a chi si è posto fuori legge è reintegrarlo nella legge sottoponendolo alla punizione che essa prescrive.”

[15] Platone, Gorgia, cit., p.153 (478e).

[16] S. Weil, “Autobiografia spirituale”, in Attesa di Dio, a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi Milano, (2008), a p. 25 scriveva: “Avrei preferito morire anziché vivere senza essa”

[17] https://www.youtube.com/watch?v=klmyYtGaaKo In questo video Gustave Thibon parla del loro incontro e ci racconta che “elle ne s’entendait pas” per dire che non si curava affatto della sua salute.

[18] S. Weil, “L’autobiografia spirituale”, in Attesa di Dio, cit., p. 25.

[19] Ibidem

[20] L’amor fati di Marco Aurelio significa accettare di ubbidire al mondo, a cui Weil si riferisce nella lettera.

[21] Maria Concetta Sala, “Il promontorio dell’anima” in S. Weil, Attesa di Dio, cit. XVIII

[22] Cfr. S. Weil, “L’autobiografia spirituale”, in Attesa di Dio, cit., a p. 41 riassume la sua critica in queste parole: “mi pare un bene se qualche pecora rimane fuori dall’ovile a testimoniare che l’amore di Cristo è essenzialmente tutt’altra cosa”.

[23] Ivi, p. 36.

[24] Il modernismo cattolico fu un vasto movimento non solo italiano, un tentativo di rinnovamento delle forme intellettuali e istituzionali per un dialogo e una conoscenza libera da condizionamenti apologetici, al fine di instaurare pacifiche relazioni con le altre religioni ed avere una maggiore autonomia di studio. https://www.treccani.it/enciclopedia/modernismo-cattolico_%28Dizionario-di-Storia%29/

[25] S. Weil, “L’autobiografia spirituale”, in Attesa di Dio, pp. 35-36.

[26] S. Weil, “L’autobiografia spirituale”, in Attesa di Dio, cit., p. 28.

[27] Ivi, p. 25.

[28] S. Weil – Joë Bousquet, Corrispondenza, cit., p. 42.