Come abbiamo visto Simone Weil parlava un linguaggio spirituale ma teso ai bisogni materiali. Negli ultimi mesi della sua vita scrive la Dichiarazione dei doveri verso un essere umano[1] dove distingue nettamente l’individuo dalla sua appartenenza alla collettività. Questa distinzione appare significativa nel mondano, sebbene sia (a ragione) insignificante per Weil.
“L’obbligo lega solo gli esseri umani. Non c’è obbligo per le collettività come tali. Ve ne sono invece per tutti gli esseri umani che compongono, servono, comandano o rappresentano una collettività, tanto per la parte della loro vita che è legata alla collettività quanto per quella che ne è indipendente.”[2]
Sul concetto di Obbligo torno tra un attimo, vediamo prima perché la distinzione appare importante.
All’origine del concetto di collettività c’è in effetti una semplice somma di individui singoli, ma dal punto di vista giuridico il singolo obbligato al rispetto della Legge lo è, in certi ambiti, in virtù di una tutela del solo concetto astratto di collettività, espresso sulla carta nella promulgazione delle leggi. Ogni concetto di tipo legale per essere efficace sull’essere umano dovrebbe riferirsi alla tutela del singolo essere umano, mentre la vocazione del Diritto è occuparsi in modo universalistico delle norme positive, per normare i casi generali, non particolari (di cui si occupano le clausole generali) e dunque non potendo in ogni caso adempiere alla funzione di tutela così come immaginata da Weil. Se gli uomini del 1789 non conoscevano la realtà “al di sopra di questo mondo” e partivano dalla nozione di Diritto pensandola giusta, così facendo creavano in realtà la confusione di linguaggio e di idee odierna, sia in politica che nel sociale, e perciò la filosofa rammentava che la sua nozione di Obbligo era tanto diversa, di molto superiore a quella di Diritto, e infatti scriveva:
“L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia ad intervenire (…); quest’obbligo non si fonda su nessuna situazione di fatto, né sulla giurisprudenza, né sui costumi, né sulla struttura sociale, né sui rapporti di forza, né sull’eredità del passato, né sul supposto orientamento della storia. Perché nessuna situazione di fatto può suscitare un obbligo.”[3]
Nessuna situazione di fatto poteva suscitare un obbligo, appunto perché quest’obbligo era un obbligo incondizionato che non apparteneva al mondo, e nel mondo non poteva fondarsi su nulla; era al di fuori dello spazio, del tempo, fuori dall’universo mentale; corrispondeva nel centro del cuore a una esigenza di bene assoluto. Parlava di un obbligo non fondato su convenzioni, ma eterno in risposta al destino eterno dell’essere umano ed esigeva un rispetto «espresso in modo reale e non fittizio»[4] in relazione ai bisogni terrestri dell’uomo. Dato che la necessità faceva perdere di vista il desiderio di bene, identificava il primo bisogno dell’uomo nella fame[5] e trovando sul proprio cammino qualcuno in stato di bisogno non si era innocenti se non si forniva aiuto; gli egiziani pensavano che un’anima non potesse giustificarsi in punto di morte se non poteva dire “non ho fatto patire la fame a nessuno.”[6]
Si noti che questo primo bisogno era la matrice dell’obbligo verso l’essere umano immaginato da Weil al fine di comporre un elenco esaustivo di doveri eterni, tutti bisogni vitali analoghi alla fame, alcuni in rapporto alla vita fisica - «la protezione contro la violenza, l’abitazione, il vestiario, il caldo, l’igiene, le cure in caso di malattia»[7] - altri in rapporto alla vita morale, capaci di far cadere l’uomo «a poco a poco in uno stato analogo alla morte, simile a una vita puramente vegetativa»[8] se non venivano soddisfatti. Erano questi i più difficili da identificare, ma ciascuno sapeva dell’esistenza di certe crudeltà che toccavano la vita dell’uomo senza per questo toccarne il corpo.
Così come il rispetto dovuto a un campo di grano era relativo al nutrimento che poteva fornire agli uomini, si doveva rispetto a una collettività come nutrimento per l’anima degli appartenenti. Ognuna di esse era unica, se distrutta non poteva esser sostituita (ecco il danno maggiore per gli albigesi o le comunità colonizzate) poiché “il nutrimento che una collettività fornisce all’anima dei suoi membri non ha equivalenti in tutto l’universo.”[9] Una comunità aveva le sue radici nel passato ma entrava altrettanto nell’avvenire, prestando servizio sia alle anime dei vivi che alle anime di chi sarebbe nato nei secoli a venire. Le radici sono l’identità, la loro funzione primaria é conservare:
“[é] l’unico organo di conservazione per i tesori spirituali accumulati dai morti, l’unico organo di trasmissione mediante il quale i morti possono parlare ai vivi. E la sola cosa terrestre che abbia un legame diretto con il destino eterno dell’uomo è lo splendore di coloro i quali hanno saputo prendere coscienza completa di quel destino, trasmesso da generazione a generazione.”[10]
Nel caso in cui le collettività fossero giunte al punto di divorare le anime anziché nutrirle, si era alla presenza di una malattia sociale e il primo obbligo era tentare una cura; nel caso in cui le collettività, pur senza divorare le anime, non erano più di nutrimento, bisognava invece annientarle. Gabriella Fiori scriveva al proposito:
“L’uomo non ha un potere, ma ha una responsabilità; dunque non è oppresso né oppressore, ma ha dei doveri verso sé stesso e verso altri, dei doveri verso la «creatura umana» che con l’attesa piena di attenzione delicata si lascia invadere dalla luce della grazia. Ecco come possono cambiare i rapporti tra gli esseri umani: favorendo l’apertura universalizzante delle vie verso la luce. Questo significa «concepire i bisogni terrestri dell’anima e del corpo.» Ogni bisogno è l’oggetto di un dovere.”[11]
Avendo nelle mani i destini di altre persone chi si asteneva era definito da Weil un criminale. Dimostrare rispetto significa anche banalmente spiegare il perché di un “no”: qualsiasi “no” viene meglio accettato se siamo in grado di dare spiegazione dei motivi: è amore e attenzione anche far comprendere le ragioni che lo generano, magari proponendo delle alternative. Il criterio per vedere se i bisogni di tutti sono soddisfatti in un dato luogo è il fiorire della fratellanza, la presenza di gioia, felicità e bellezza attorno; se al contrario siamo ripiegati su noi stessi in atteggiamenti di tristezza e chiusura, ci sono di certo privazioni da guarire.[12]
In sintesi l’idea di cura per la ricostruzione di una società era basato sulla rigenerazione spirituale tramite il passaggio dal Diritto - nato dalla rivoluzione francese - all’Obbligo come fondamento di una nuova modernità, un impegno ad assumerla come regola pratica della propria condotta, poiché la realtà di quaggiù si fondava nei fatti mentre la realtà “altra” si fondava nel Bene. L’unica condizione per la riuscita era acconsentire personalmente al Bene: serviva infatti il libero consenso degli uomini, così che il Bene potesse discendere e irraggiare tutto attorno chi lo esercitava.
La filosofa parlò del consenso al bene anche in occasione di una densa, poetica, illuminante corrispondenza con Joë Bousquet, grande invalido della prima guerra, poeta e scrittore. Bisognava orientare il proprio sguardo, fare attenzione[13] a contattare questa struttura essenziale della natura umana che proiettava luce, dando il proprio consenso al bene perché: “il bene prende l’anima solo quando essa è consenziente.”[14]
Una volta acconsentito, gli individui avrebbero avuto bisogno di vedere la facoltà del libero consenso sbocciare ovunque nel mondo, in ogni forma di vita umana, in tutti gli esseri umani.
“Nella misura in cui in un momento qualsiasi nasce tra gli uomini un po’ di follia d’amore, in ugual misura, e non oltre, vi è possibilità di un cambiamento in direzione della giustizia.”[15]
Weil evidenziava che la follia d’amore impadronitasi di un essere umano trasformava radicalmente le sue modalità di azione e di pensiero, e s’apparentava alla follia di Dio, che appunto consisteva nell’aver bisogno del libero consenso degli uomini: “ciò che Dio va cercando come un mendicante tra gli uomini.”[16] Così intesa, l’esigenza del bene presente nel cuore di ogni donna e uomo avrebbe fatto si che ogni essere umano sarebbe stato visto come uguale, meritevole di uno stesso rispetto, e con ciò sarebbe stato considerato Sacro. Non c’era altra possibile motivazione al rispetto, era qualcosa di identico in tutti noi, nuclei di bene attorno al quale “si disponeva un po’ di materia psichica e carnale”.[17] Le differenze presenti nel mondo non andavano eliminate (nel mondo ci sono solo differenze), era solo necessario rivolgere lo sguardo al comune denominatore altrove, nella realtà fuori dal mondo, ma che era posto anche in questo mondo, nel cuore di ognuno. L’attenzione orientata al di fuori del mondo contattava la struttura essenziale della natura umana, la quale avrebbe portato la luce nell’individuo: c’era la stessa luce insita in ogni essere umano, lo stesso desiderio di bene di cui ogni altro era abitato. Dove le regole del gioco erano quelle imposte dal più forte esisteva parimenti una dimensione per l’amore, l’attenzione e l’ascolto, dove gli istinti naturali, i desideri e le opinioni lasciavano il posto al rispetto e al consenso comune: bastava acconsentire ad essa; se il male materiale era impossibile da guarire coi soli mezzi della ragione, bisognava allora rivolgersi alla dimensione altra, quella spirituale. Weil era convinta che “nella vita di un popolo come in quella di un’anima, si tratta solo di portare al centro questo infinitamente piccolo” il granello di senape, il lievito della pasta, il sale nel cibo.[18] Ciò che sarebbe cresciuto dando sapore alla propria vita.
I greci avevano in origine identificato nella hybris, orgoglio e superbia, sentimenti di superiorità quali mali del mondo, una tracotanza che nasceva dalla mancanza del senso di misura (e di auto-controllo). Si trattava dunque di rinunciarvi affidandosi alla nuova attitudine, quel volgere la propria attenzione non più alla violenza e alla forza, ma al Bene, aprendosi alla verità per far nascere nuove comunità fatte di calore umano, di vicinanza e ascolto dove tutti avrebbero trovato il loro posto.
Se il sentimento di superiorità fosse scomparso anche il problema della forza, del razzismo, del colonialismo sarebbero stati superati. Simone Weil continuò a pensare di dover ricostruire i criteri su cui si basava la sacralità e la dignità della persona umana anche nel libro La persona e il sacro. Come sempre si era posta domande fondamentali: cosa fa dell’uomo “un uomo”? Cosa fa di una persona un Essere degno de essere rispettato? La società Occidentale veniva da una cultura personalista - peraltro spinta sempre più all’eccesso - dall’idea che la tutela dell’individuo era il suo esser destinatario di Diritti, ma abbiamo visto che non sono i Diritti aggiunti alla persona che la rendono degna di rispetto. Altrettanto inutile risultava appellarsi alla persona, perché nessuno degli elementi che la costituivano aveva mai storicamente fermato la mano di chi voleva fargli del male. Infatti la filosofa si chiede: “Cosa di preciso m'impedisce di cavare gli occhi a quest'uomo, se ne ho la possibilità e ciò mi diverte?”[19]
Benché un uomo possa essere definito Sacro nella sua interezza, non è nel rispetto delle parti, o da certi punti di vista che risulta meritevole di rispetto. Con l’esempio del cavare gli occhi porta l’attenzione sul fatto che anche un uomo mutilato, reso cieco, è una persona esattamente umana quanto lo era prima. E allora da cosa dipendeva il rispetto? Cosa impediva alla mia mano di uccidere un individuo? La risposta della filosofa era che si trattava dell’ascolto di una richiesta, un grido silenzioso che faceva eco nel segreto dei cuori, la richiesta di ricevere del bene e non del male:
“Dalla prima infanzia sino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. E’ questo, anzitutto, che è sacro in ogni essere umano.”[20]
Rita Forte torna sull’argomento dell’attesa dicendo che chi riesce a mettersi in ascolto di quel “grido muto nella consapevolezza della sottomissione di tutti alla forza, può almeno disporsi a compiere pratiche di giustizia, se non giungere a essere un giusto. Il fatto essenziale è l’obbligo di rispetto nei confronti di ciascun essere umano, e dunque, anche nei confronti del luogo per eccellenza che permette le relazioni tra esseri umani, cioè la città.”[21] Dunque la fonte del “Sacro” era il “Bene”. Dello stesso avviso sembra essere Emmanuel Lévinas, nel suo libro Difficile Libertà:
“L’intuizione fondamentale della moralità consiste forse nel percepire che io non sono uguale agli altri, e in un senso molto preciso: io mi vedo obbligato allo sguardo d’altri e di conseguenza sono infinitamente più esigente verso me stesso che verso gli altri. (…) Perché l’uguaglianza possa entrare nel mondo è necessario che gli esseri umani possano esigere da loro stessi più di quanto esigano dagli altri, è necessario che sentano responsabilità da cui dipende la sorte dell’umanità.”[22]
L’altro non ci è indifferente, ci coinvolge in una relazione etica prima che sociale o politica e questa relazione avviene guardandosi negli occhi, faccia a faccia. Il volto è il mezzo di comunicazione con cui l’umanità dell’altro si manifesta, è una presenza viva che ci richiama alla nostra responsabilità umana, da cui dipendono le sorti di noi stessi e degli altri. Questo genere di affermazioni non ha un ambito delimitato o separato: siamo nella sfera multipla costituita dalla politica, dall’etica, dalla psicologia, dalla religione. Ma coloro che si trovano dalla parte della forza non sono di solito inclini ad accettare critiche da parte degli inermi, e del resto chi è in posizione di forza si muove all’interno di un ambiente privo di resistenza, dove il pensiero non trova posto e cosi non ne ha la giustizia. Se il comando di Lévinas potesse davvero essere udito, tratterrebbe la mano di chi colpisce un altro essere umano o forse si potrebbe mettere in atto una difesa da parte di chi assiste all’ingiustizia. Il fatto è che nonostante le eclatanti forme di ingiustizia compiute in ogni ambito dai potenti, spesso, nella società, essi vengono considerati come uomini degni di ammirazione, addirittura dei giusti. Ma l’errore nel giudizio deriva dal fatto che vengono giudicati da vivi, ricoperti dai loro abiti simbolo del prestigio sociale, come riporta il brano del Gorgia sui cattivi giudizi[23], e non stupisce quindi che anche i giudici, abbagliati dall’apparenza e anch’essi di tutto punto vestiti, non colgano quanto si celi nell’anima. Gli uomini sono influenzati dall’aspetto fisico e dalla posizione sociale. Come scrive Rita Fulco nel suo libro Soggettività e Potere:
“Dunque, il solo rimedio affinché i giudizi possano essere giusti, cogliendo cioè non la mera apparenza, ma la verità dei singoli esseri umani, è che essi vengano giudicati da morti, e soprattutto da giudici anch’essi morti: spogliati da ogni vessillo, nella nudità assoluta. (…) «La verità non si manifesta che nella nudità, e la nudità è la morte»”.[24]
Poco più avanti nel testo La persona e il Sacro Weil torna sulle motivazioni che non permettevano di ascoltare il grido “debole e maldestro” e su quanti erano troppo provati per esprimerlo, dove si legge:
“Per la pubblica espressione delle opinioni ci vuole poi un regime che sia definito non tanto dalla libertà quanto da un'atmosfera di silenzio e di attenzione in cui questo grido debole e maldestro possa farsi sentire. Infine ci vuole un sistema di istituzioni che porti il più possibile alle funzioni di comando gli uomini capaci e desiderosi di intenderlo e di capirlo. E' chiaro che un partito occupato nella conquista o nella conservazione del potere governativo non può discernere che rumore in queste grida.”[25]
Negli uomini al comando era indispensabile essere in possesso di una capacità di ascolto del grido di dolore per il male inflitto nel profondo dell’anima, un male che sorgeva dalla sensazione di contatto con l’ingiustizia attraverso il dolore, che non era un sopruso diretto alla persona e ai suoi desideri, ma diventava una “protesta impersonale”.
“Ciò che è sacro, ben lungi dall'essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale. Tutto ciò che è impersonale nell'uomo è sacro, e soltanto quello.”[26]
Contava l’essere impersonale. Può suonare scioccante nel sentirlo dire, riporta subito alle tragedie dei periodi bui della nostra storia recente dove impersonale significava essere un nulla, ma la filosofa declina il concetto in modo sorprendente: la verità e la bellezza erano le cose impersonali e anonime; la verità era sacra nella scienza, nell'arte sacra era la bellezza. La perfezione era impersonale, mentre la persona in noi era la parte dell'errore. Tutto lo sforzo dei mistici era sempre stato volto a ottenere che non ci fosse più nella loro anima nessuna parte che dicesse "io". Ma ella riteneva la parte dell'anima che diceva "noi" anche più pericolosa. Il collettivo aveva di certo una tendenza a comprimere la persona, ma perdipiù “affogava” nel collettivo. Bisognava prima che una collettività si dissolvesse in persone distinte perché fosse possibile entrare nell'impersonale, dato che la collettività non era sacra ma idolatra, e più importante in essa era la realizzazione della persona anziché ritrovare la sua parte sacra. Il passaggio nell'impersonale si poteva ottenere tramite un'attenzione di una rara qualità: mediante la solitudine di fatto e solitudine morale. Bisognava ogni giorno rimanere un po’ da soli a pensare, poiché l’impersonale non si compiva in quanti pensavano a se stessi come membri di una collettività: la collettività era estranea al Sacro, ne era un’imitazione. C’era a questo proposito bisogno che ci fosse “intorno a ogni persona dello spazio, un certo grado di tempo libero a disposizione, delle possibilità per il passaggio a gradi di attenzione sempre più elevati, della solitudine, del silenzio.”[27]
L'essere umano poteva sfuggire al collettivo innalzandosi al di sopra del personale per penetrare nell'impersonale. In quel momento un frammento della sua anima (su cui niente di collettivo poteva far presa) avrebbe potuto radicarsi nel bene impersonale, cioè diventare capace di attingervi energia, essendo in grado, ogni volta che pensa di averne l'obbligo, di opporre contro qualsiasi collettività una forza sicuramente piccola ma reale.
Come scrive Rita Fulco nel suo saggio Potere, violenza, governo della città:
“Nel saggio «La persona e il sacro» ella immagina una sparuta minoranza di giusti dai quali dipenderebbe la salvezza del nostro «essere insieme in un luogo» - per usare un’espressione di Emmanuel Levinas – la cui “debole forza” viene paragonata a quella del lievito. La loro giustizia non è da considerarsi innata, frutto dunque di una bontà naturale, poiché tutto ciò che appartiene al regno della natura è sottomesso alla forza. La giustizia dei giusti è determinata dal consenso dato a un «granello infinitesimo di bene» che, installatosi nell’anima agisce come un catalizzatore.”[28]
Simone Weil scrisse che forse erano pochi, probabilmente rari, la maggior parte anche nascosti. Ma a questi esseri che erano andati oltre il limite toccava “badare che gli uomini non facessero male ad altri uomini”[29]:
“Il bene puro è mandato dal cielo quaggiù in quantità impercettibile, sia in ogni anima, sia nella società. "Il seme di senape è il più piccolo dei semi" Proserpina ha mangiato un solo chicco di melagrano. Una perla sepolta in un campo non è visibile. Non si nota il lievito mescolato all'impasto. Ma come nelle reazioni chimiche i catalizzatori o i batteri, di cui il lievito è un esempio, analogamente nelle cose umane i semi impercettibili di bene puro operano in un modo decisivo con la loro sola presenza, se sono messi al posto giusto.”[30]
Questi uomini avrebbero contribuito alla creazione di nuove istituzioni destinate a sceverare e abolire tutto ciò che nella vita schiacciava le anime “sotto il peso dell’ingiustizia, della menzogna, della bruttezza”.[31]
In sintesi, Simone Weil afferma che l’impersonale, ciò che va oltre l’individualità e si connette al tessuto comune dell’esistenza umana, é una barriera contro l’idolatria oltre che una possibilità di comprendere la profonda incertezza dell’uomo rispetto alla sua mancanza di orientamento nel mondo, per ritrovare un senso. Ciò che è Sacro non è la persona stessa, ma quello che è impersonale in ogni essere umano. Le cose impersonali sono il vero deposito di verità e bellezza.
La filosofa auspica per gli individui una prospettiva etica (e politica) che va oltre l’individualismo e si concentra sul bene comune, proponendo di sostituire l’ideologia politica dei diritti con la nozione di “obbligo verso ogni essere umano in quanto tale” al quale tutti sono obbligati. Questo approccio sposta l’attenzione dalla lotta per il potere verso la responsabilità dovuta agli altri. Simone Weil ci invita a superare l’egoismo individuale e a considerare il bene comune e gli obblighi verso gli altri come fondamentali per una società più giusta e umana.
[1] S. Weil, La prima radice, SE, Milano (1990), tr. it. di Franco Fortini; la prefazione Preludio a una Dichiarazione dei doveri verso l’essere umano era stata scritta nel ’43.
[2] S. Weil, “Preludio a una Dichiarazione dei doveri verso l’essere umano”, in La prima radice, cit., p. 14.
[3] Ibidem
[4] Ivi, p.15.
[5] S. Weil, Quaderni, vol. II, Adelphi Milano (1985), a p. 182 scrive: “Come in un pezzo di pane si legge qualcosa da mangiare, e lo si mangia; così in un certo insieme di circostanze si legge un obbligo; e lo si esegue. Si fa questo tanto più presto e più direttamente quanto più chiaramente lo si è letto. Si legge tanto più chiaramente quanto meglio si apprende questo linguaggio. In un certo posto vi sono indicazioni in forma d’immagini e altre scritte. Chi non sa leggere segue le indicazioni delle immagini. Chi sa leggere obbedisce alle direttive scritte e non guarda neppure le immagini. Così per il desiderio e l’obbligo.”
[6] S. Weil, La prima radice, cit., p.15.
[7] Ivi, p.16
[8] Ibidem
[9] Ivi, p.17
[10] Ibidem
[11] Domenico Canciani, Gabriella Fiori, Giancarlo Gaeta, Adriano Marchetti, Simone Weil La Passione della verità, Morcelliana Brescia (1985), p. 23.
[12] Simone Weil, “Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano”, in Una costituente per l’Europa, Scritti londinesi, tr. it. di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, Castelvecchi, Roma, 2019, p.121.
[13] Cfr. S. Weil-Joë Bousquet, Corrispondenza, cit., a p. 13 Weil scriveva: “L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità.”
[14] Ivi, p. 35.
[15] S. Weil, “Stiamo lottando per la giustizia?”, Una costituente per l’Europa, Scritti londinesi, cit., p.182.
[16] Ivi, p.180
[17] S. Weil, “Dichiarazione obblighi verso l’essere umano”, in Una costituente per l’Europa, Scritti londinesi, cit., p. 114.
[18] S. Weil, “Questa è una guerra di religione”, in Una costituente per l’Europa, Scritti londinesi, cit., p. 72.
[19] S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 21.
[20] Ivi, p. 22.
[21] Rita Fulco, “Potere, Violenza, Governo della città”, in Abitare la vita, abitare la storia. A proposito di Simone Weil, cit., p. 51.
[22] Emmanuel Lévinas, Difficile libertà, tr. it. di Silvano Facioni, Jaca Book, Milano (2017), p. 39.
[23] Platone, Gorgia, Rizzoli Mondadori, Milano, (2019), 523a 524a, pp. 299-301.
[24] Rita Fulco, Soggettività e Potere, Quodlibet, Macerata (2020), p. 82.
[25] S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 23.
[26] Ivi, p. 25.
[27] Ivi, p. 30.
[28] Rita Fulco, “Potere, violenza, governo della città, Abitare la vita, abitare la storia A proposito di Simone Weil, cit., p. 50.
[29] S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 47.
[30] Ivi, p. 49.
[31] Ivi, p. 50.