Da ultimo vorrei dire due parole sul temperamento generoso, appassionato e disarmante di Simone Weil, decisivo nelle scelte e di conseguenza nelle esperienze della sua vita.
Come anticipato nel primo capitolo la particolarità del suo carattere era un’intelligenza pronta legata però all’azione: azione e pensiero andavano di pari passo. Non riusciva a pensare rimanendo inerte, riteneva che quando si agisce l’anima si libera in virtù dell’interruzione di un’attività meccanica, a fronte di un lampo di attenzione, perché “un atto privo di attenzione e di consapevolezza non era davvero libero”.[1] Per questa ragione non le piaceva stare in quella che definiva la retrovia.
La retrovia, nel linguaggio militare è il luogo a tergo dell’area di combattimento vera e propria, dove si gestiscono e si programmano le azioni che servono ad alimentare la vera attività della battaglia; dovendo scegliere tra esporsi direttamente e rimanere nella retrovia preferiva l’azione diretta, partecipando in prima persona là dove c’era più bisogno, presenziando con coraggio. Nella Lettera a Georges Bernanos, ricordando la partecipazione alla guerra civile spagnola, lo scrive espressamente; non potendo impedirsi di pensare da più giorni e ritrovandosi per giunta a parteggiare, ritenne coerente partire per unirsi alla lotta, legando quindi i pensieri all’azione:
"Non mi piace la guerra; ma nella guerra, ciò che mi ha sempre fatto più orrore è la posizione di chi si trova nella retrovia. Quando mi sono resa conto che, malgrado i miei sforzi, non potevo impedirmi di partecipare moralmente a questo conflitto, augurandomi ogni giorno, ogni ora, la vittoria degli uni e la disfatta degli altri, mi sono detta che Parigi era per me la retrovia e ho preso il treno per Barcellona con l'intenzione di arruolarmi. Era l’inizio dell’agosto 1936.[2]
Questa attitudine, insieme al lato coraggioso e pratico, erano emersi sin dai tempi della scuola, da studentessa nella classe del filosofo Alain[3]; gli allievi erano considerati scomodi dalle persone più autorevoli, perché gli studenti avevano nel tempo cominciato a sottoporre alle autorità petizioni su temi caldi, pubblicandole ugualmente a mezzo stampa per rendere partecipe la popolazione. Un esempio dell’operato come classe coesa e coraggiosa si ha nel 1928, sull’argomento del servizio di leva. L’addestramento militare era obbligatorio anche all’Ecole Normale ma si trattava in effetti di un privilegio: permetteva agli studenti di diventare direttamente ufficiali, senza passare dalla condizione di soldato semplice, avendo un servizio militare più breve. Gli studenti firmatari, una cinquantina tra cui Simone Weil, chiedevano di esser liberi di rifiutare il privilegio accomunandosi alla sorte popolare dei meno fortunati, ma quel che più di tutto aveva scandalizzato le gerarchie era stata la critica indirizzata al sistema. Nella sua essenza, questo modo di scegliere chi sarebbe stato comandante e chi sottoposto, veniva considerato tirannico. Il Professor Alain in uno dei suoi famosi propos[4] li supportò scrivendo questo pensiero al riguardo:
“c’è qualcosa di più bello a vedersi di chi non ama obbedire, ed è chi non ama comandare. Questa nobile specie si va moltiplicando.”[5]
Weil era una donna d’azione ma non amava mettersi al comando, seppur ne avrebbe avuto l’attitudine. Preferiva invece servire, un elemento caratteristico della vera cristianità, anche se a quel tempo non ne era del tutto consapevole. Dimostrava spirito di servizio nel periodo successivo di insegnamento, al liceo femminile di Le Puy. Aiutò disoccupati e spaccapietre con le rivendicazioni al Consiglio comunale, disinteressandosi alla personale perdita di prestigio in riferimento alla sua carriera scolastica di insegnante; si prodigava in aiuti sia che si trattasse del sindacato (non dei partiti politici, in cui non aveva fiducia), dei minatori, di una particolare causa, o semplicemente di fornire testi alle sue allieve del liceo[6] o anche solo accollarsi “il sacco tirolese che conteneva le provviste di tutto il gruppo durante una passeggiata”[7]. Aveva costruito con le allieve un rapporto speciale: la difesero sempre, lo dimostrano le loro lettere. Simone Weil coltivava in sé l’arte di dare e l’aveva sviluppata sino alla completa abnegazione: tagliarsi lo stipendio e offrire cibo, non riscaldare la casa (come succedeva in molte case) e donare libri, tutto era per lei ugualmente strumento di coerente utilità se si trattava di difendere un oppresso e creare cultura stando dalla parte della verità, in un sostegno sia materiale che spirituale.
Era una grande duplice anima, materiale e trascendentale, attiva e mistica che inizialmente lei non riusciva a coniugare. Come si sarebbe potuto conciliare il consenso alla necessità del mondo (l’amor fati) con la spinta personale ad agire per sete di giustizia? E’ stato a lungo il suo interrogativo irrisolto. Come Giancarlo Gaeta segnala in Riflessioni sull’opera filosofico religiosa di Simone Weil, cercando di ritornare a un livello zero nell’interpretazione dei suoi pensieri:
“Dunque l’uomo, come tutto il resto a questo mondo, è totalmente sottomesso alle leggi del cosmo, leggi ferree, necessità cieca a cui non presiede alcun ordine provvidenziale. Se devo sollevarlo da terra non fa differenza che io sia un criminale o un santo, devo comunque chinarmi a sollevarlo; e tuttavia il modo con cui lo sollevo può essere molto diverso se sono un criminale, un uomo comune o un santo. Questa è per così dire l’altra faccia della nostra condizione, quella che Simone Weil chiama «misteriosa complicità della materia»; poiché anche la santità, anche la capacità di bene è iscritta nella materia, al di fuori della quale non c’è nulla su cui noi possiamo far presa.”[8]
Weil sentiva una contraddizione tra la necessità del mondo e il bene innato negli individui, il governo di una duplice legge a cui non si poteva sfuggire e al contempo però non riusciva ancora a risolvere, percependone l’unita solo da un punto di vista estetico, nello spettacolo del bello, nella poesia, nella vera arte, nella grande musica, nella perfezione degli edifici medievali; solo in quei luoghi trovava l’aspirazione umana al bene unita in un misterioso equilibrio con le leggi della materia.
Metteva altresì in guardia dal fuggire la sofferenza causata dalla contraddizione rintanandosi nell’immaginario; una “contraddizione dolorosa, emblematica della condizione dell’essere pensante sottoposto allo spazio e al tempo, ma insieme fatto per abitare l’eternità”[9] così come aveva scritto al suo amico poeta e scrittore nel periodo marsigliese, Joë Bousquet, grande invalido di guerra, molto sofferente a causa delle ferite riportate nel conflitto, ferite che piagavano di continuo il suo corpo. In una lettera a lui indirizzata, a proposito della sventura fisica scriveva:
“Credo che forse per tutti, ma soprattutto per quelli toccati dalla sventura, e soprattutto se la sventura è biologica, la radice del male sia il sogno. Questa è l’unica consolazione, l’unica ricchezza degli sventurati, l’unico soccorso per portare la terribile pesantezza del tempo; un soccorso molto innocente, d’altronde indispensabile. Come si potrebbe farne a meno? Ha solo un inconveniente: non è reale. Rinunciarvi per amore della verità significa effettivamente abbandonare tutto per follia d’amore e seguire colui che incarna la verità. Significa realmente portare la croce. (…) il sogno è la menzogna. Esclude l’amore. L’amore è reale.”[10]
Scusandosi con lui per i duri pensieri elaborati, sentiva al contempo che questi pensieri erano nati in lei da un’altra fonte, nati per amor suo, e in quel momento si sentì di parlare intimamente dell’origine della sua personale sofferenza, dell’atteggiamento fortemente negativo rivolto a sé, spiegando che la ragione della mescola di disprezzo, odio e repulsione verso se stessa si situavano in “basso” a livello dei meccanismi biologici. Ne usciva un quadro di sofferenza estrema, che esprimeva con queste parole:
“E’ il dolore fisico. Da dodici anni sono abitata da un dolore localizzato intorno al punto centrale del sistema nervoso, al punto di congiunzione dell’anima al corpo, che dura anche nel sonno e non mi ha mai lasciato un istante. Per dieci anni è stato così, e accompagnato da un tal senso di prostrazione, che il più delle volte i miei sforzi di attenzione e di lavoro intellettuale erano quasi altrettanto svuotati di speranza di quelli di un condannato a morte che deve essere giustiziato l’indomani. (…) Ero sostenuta dalla fede, acquisita a quattordici anni, che nessuno sforzo di attenzione va mai perduto, anche quando non porti mai direttamente o indirettamente a qualche risultato visibile. Tuttavia il momento è giunto in cui ho creduto di essere minacciata, a causa della prostrazione dell’aggravarsi del dolore, da una degradazione così spaventosa di tutta l’anima, che per molte settimane, mi sono domandata con angoscia se morire non fosse per me il dovere più imperioso, benché mi sembrasse mostruoso che la mia vita dovesse concludersi nell’orrore. Come le ho già raccontato, soltanto una risoluzione di morte probabile e a termine, mi ha ridato serenità.”[11]
Solo l’idea della morte le aveva ridato serenità. Ma prima di parlare della mancanza di speranza in Weil, vorrei introdurre un ultimo passaggio che potrebbe ricondurre al suo bisogno impellente di pace; é un aspetto del carattere che mi ha incuriosito e sorpreso, dove lei si rimproverava - tra cinque tentazioni[12] identificate - di avere un’insuperabile “tentazione alla pigrizia”:
“Io non sono veramente libera da nessuna delle cinque, ma l’unica che non sono riuscita a superare affatto è la pigrizia. (…) Sarai tra quelli destinati a obbedire perché manca loro il coraggio per assumersi le responsabilità?”[13]
E ancora:
“Non dimenticare mai questa tentazione della pigrizia, la peggiore per me – l’unico motivo che ho di disprezzarmi – perché rispetto alle altre ho saputo vincermi abbastanza per confidare di poter tendere efficacemente a essere libera. Ma questa tentazione della pigrizia non ho mai neppure cominciato a superarla. Prendere risoluzioni è inutile. Tenere presente, semplicemente, ma in modo continuo, che se non la supero, fallirò nella mia unica ambizione; vivrò in sogno. Perché l’universo esige da noi la puntualità e la costanza.” [14]
Laddove Pétrement ritiene che “la debolezza principale di cui quest’anima pura si rimproverava, altro non era che il senso di spossatezza fisica e la difficoltà di sottomettere un corpo sovraffaticato a uno spirito troppo esigente”[15] mi sono convinta che non fosse pigra ma solo talvolta indecisa.
Non mi è possibile pensarla pigra perché ha agito molto e c’é una mole di lavoro e scritti a testimonianza, tutte cose realizzate in una vita breve. Invece nei molti pensieri e situazioni nelle quali si è venuta a trovare in vita, dove avrebbe dovuto prendere una direzione, forse non sempre ci è riuscita. Erano momenti di staticità, di attesa, ed ecco perché parlava di “pigrizia”; la identificava come tale ma non era pigrizia, era solo immobilità nel non riuscire a decidere tra questo e quello. Una semplice mancanza di direzione nel senso di non saperla momentaneamente scegliere: uno squilibrio nella determinazione di decisioni sia grandi che piccole. Nella miriade di analisi mentali talvolta forse non riusciva a porsi in una posizione specifica, non sapendo quale fosse la migliore, ad esempio prima della guerra: avanzare o indietreggiare? E infatti suggerirà di temporeggiare. Però, questo genere di temperamento nella fase in cui è equilibrato, è il tipo di persona che più di tutti ha un accesso completo al panorama, al disegno per intero, ed ecco apparire il suo genio.
Nell’ultimo periodo di Londra, nella Lettera a Maurice Schumann scriveva:
“A parte ciò che può essermi concesso di fare per il bene di altri esseri umani[16], personalmente, per me la vita non ha nessun altro senso né in fondo ha mai avuto altro senso, se non l’attesa della verità. Sento una lacerazione, sia nell’intelligenza che al centro del cuore, che si va aggravando senza sosta a causa dell’incapacità di pensare insieme, nella verità, la sventura degli uomini, la perfezione di Dio, e il legame fra l’una e l’altra cosa. Ho la certezza interiore che questa verità, se mai mi sarà accordata, lo sarà soltanto nel momento in cui mi troverò io stessa fisicamente nella sventura, in una delle forme estreme della sventura presente.” [17]
L’incertezza cronica, la sofferenza del non riuscire a decidersi tra le cose sembrando ora giusta la prima e il momento dopo la seconda, alla lunga non le lasciava pace, creava forse tensioni nell’organismo, con sintomi manifesti: sappiamo bene delle sue violente crisi di emicrania[18] e del suo “disgusto”[19]. Questo suo lato incerto ricorda il celebre dubbio amletico “Essere o non essere” cuore della tragedia shakespeariana, il dilemma del protagonista nel famoso monologo dove si interroga angosciato sull’esistenza umana, ponendo in contrasto la sofferenza della vita con la possibilità di ribellarsi e porre fine alle avversità attraverso la morte. Un interrogativo irrisolto profondamente filosofico perché vivere è affrontare sfide, lottare contro le avversità, grandi dolori che un’esistenza porta inevitabilmente con sé e che a volte sembrano schiacciarci così tanto da non riuscire più a risollevarci; morire potrebbe invece essere un sonno, la pace rispetto al dolore, ma non è dato sapere se non possa essere solo l’oscurità dell’ignoto. Entrambe le opzioni di Amleto sono cariche di incertezza. Ecco il brano:
“Essere, o non essere, tale è il problema. È egli più decoroso per l’anima di tollerare i colpi dell’ingiusta fortuna, o impugnare le armi contro un mare di dolori e, affrontandoli, finirli? Morire, dormire, null'altro; e dire che con quel sonno poniamo termine alle angosce del cuore e ai mille affanni naturali di cui è erede la carne.... è una conchiusione da essere avidamente desiderata. Morire,... dormire,... dormire! forse sognare...; ah, ecco il punto; perocché quali sogni possono sopravvenire in quel sonno di morte, allorché reciso abbiamo il filo di questo mondo? Ecco quello che ci trattiene, ed è ciò che rende l’infortunio sì lungo: perocché chi vorrebbe altrimenti sopportare i flagelli del tempo, gli oltraggi degli oppressori, le contumelie dei superbi, le angosce dell’amore disprezzato, le cabale della legge, l’insolenza dei governanti, e i vilipendi che il merito paziente soffre dall’abbietta ignoranza, quando un ferro gli basterebbe per darsi quiete? Chi vorrebbe sopportare questi fardelli, e gemere, e affannarsi, trascinando un’inferma vita, se non fosse il timore di qualche cosa al di là della tomba, di quel paese ignoto, da cui nessun viaggiatore ritorna, che turba la volontà, e fa preferirci i mali che abbiamo, piuttosto che affrontarne altri che ci sono sconosciuti? Così la coscienza ci rende tutti codardi, e il colore ingenito della risoluzione rimane offuscato dalla pallida ombra del pensiero; cosi le imprese di maggior polso e momento si sviano dal loro corso naturale, e perdono il nome di azioni. - Pace ora! La bella Ofelia, - Ninfa, nelle tue orazioni siano ricordati tutti i miei peccati.”[20]
E’ certo che negli ultimi scritti, i Quaderni dedicati alla dialettica di finito-infinito, la filosofa finalmente trova la soluzione alla domanda sulla contraddizione che l’aveva tormentata per tutta la vita, e nel volume terzo queste sono le sue risposte:
“l’armonia procede assolutamente dai contrari. E’ l’unione in un solo pensiero di pensieri che pensano separatamente. Non cose pensate separatamente, ma pensieri che pensano separatamente. Chi pensa più separatamente dell’uomo e Dio?”[21]
“Conoscere le cose e gli esseri limitati come limitati, con tutta la propria anima, e portar loro un amore infinito. Questo significa veramente lasciare in sé un passaggio per il contatto tra Dio e la creazione. Dio ama infinitamente le cose finite in quanto finite.”[22]
“L’identità dei contrari subita in modo incosciente è il male. L’identità compresa è il bene.”[23]
Weil si dispiace molto che il suo Progetto di una formazione di Infermiere di prima linea non venga approvato, motivo per cui si era trasferita in Inghilterra. E’ amareggiata.
Il pregresso deperimento fisico si accentua nella mancanza di una alimentazione adeguata, convinta nel suo rifiuto di mangiare non più di quanto era consentito dal razionamento del cibo in Francia. Colpita dalla tubercolosi resta qualche giorno in ospedale dove però si sente oppressa, continua a non mangiare, chiede di essere trasferita in un sanatorio. In estate le sue condizioni peggiorano, sono gravissime quando viene trasferita al sanatorio di Ashford, nel Kent.
Morirà la sera del 22 agosto 1943 a soli 34 anni.
Una delle favole dei fratelli Grimm che Simone Weil amava era I sei cigni. La fiaba raccontava della matrigna di sei fratelli, una strega, che li aveva trasformati in cigni. Per ridargli forma umana la loro sorella avrebbe dovuto filare e cucire in silenzio sei camicie di anemoni bianchi. Nessuna parola doveva essere pronunciata sino al termine del lavoro e ci avrebbe messo sei anni. Perseverando nel silenzio lavorare ma corre dei rischi perché esposta ad accuse. Alla fine, mentre sta per essere condotta al supplizio, appaiono i cigni, lei getta su di loro le camicie di anemoni terminate, e i fratelli riprendono le sembianze umane. Si salva potendo ora parlare e giustificarsi. Simone Weil scrive che:
“agire non è mai difficile: agiamo sempre troppo e ci disperdiamo continuamente in atti disordinati. Fare sei camicie con degli anemoni e tacere: è questo il solo modo per acquisire forza (…) è quasi impossibile fare delle camicie cucendo anemoni, e questa difficoltà impedisce a ogni altra azione di alterare la purezza di quel silenzio di sei anni. In questo mondo l’unica forza è la purezza; tutto ciò che è senza mescolanza è un frammento di verità. La sola forza, l’unica virtù è quella di trattenersi dall’agire.”[24]
In questo punto la sua amica Simone Pétrement scriveva:
“La sofferenza dell’innocente riscatta di per sé; un essere puro agisce col suo solo esistere; salva senza azione visibile. (…) Non si può far a meno di pensare al sacrificio di cui forse è morta, che non era direttamente utile, che non era un’azione, un intervento, bensì un rifiuto, la custodia di una purezza, una fedeltà a sé stessa.”[25]
Tommaso Greco nel suo ultimo libro Curare il mondo con Simone Weil parla della necessità della creazione di uno spazio altro, diverso:
“per quanto la meccanica del mondo ci porti nella direzione opposta – perché lo sappiamo bene, nel mondo «non c’è altra forza che la forza»[26] - abbiamo dentro di noi la possibilità di agire diversamente, sottraendoci al dominio della forza. Decrearsi vuol dire evitare di occupare tutto lo spazio; vuol dire creare le condizioni affinché l’altro possa esistere. Proprio mentre constata che il mondo è forza – arroganza, protervia, prepotenza – il mite sa che è possibile mettere in atto una compressione dell’io che, sottraendo forza alla forza, toglie il terreno su cui essa germoglia.”[27]
Era questo il senso del Progetto Infermiere di prima linea. Il debole che si faceva debole ma compassionevole, accettando persino di andare incontro alla morte piuttosto che contribuire al dominio della forza. Contrapporre dentro alla guerra, sul fronte, nella linea di fuoco, la non violenza alla violenza. Mettere non combattenti di fronte e al fianco dei combattenti, un corpo di infermiere, un nucleo di 10 donne senza armi ma armate solo del loro coraggio, agenti in prima linea, certo soccorrere con aiuti minimi in attesa dell’arrivo dei barellieri, ma soprattutto per accompagnare e sostenere nel momento estremo di sofferenza e morte, raccogliendo le ultime parole.
Alla propaganda dell’eroismo della brutalità che abita le truppe in guerra, uomini pronti a morire per uccidere l’altro, era visibile un eroismo di segno contrario: donne pronte a morire per soccorrere, curare, accompagnare alla morte. Un minimo battaglione pacifico, un simbolo, con tutta l’efficacia morale del semplice esistere di un compito umanitario e pacifico là, dove meno sarebbe stato possibile.
Simone Weil aveva colto che la lotta quando serve deve essere fatta, è necessaria, ma deve essere di una natura e di un fine diverso. La mitezza che non si accompagna al prestigio è la garanzia di una forza autentica. Rinunciare alla forza è rimanere quello che siamo: fedeli a noi stessi nella nostra caratteristica prima, l’umanità.
[1] S. Pétrement, La vita di Simone Weil, cit., p. 50.
[2] S. Weil, “Lettera a Georges Bernanos” in Sulla Guerra, cit., p. 62.
[3] Émile-Auguste Chartier, detto Alain (1868–1951), è stato un filosofo, giornalista, scrittore e professore francese.
[4] I “propos” erano un nuovo tipo di genere letterario da lui ideato: articoli brevi, ispirati dai fatti della vita quotidiana, con uno stile semplice e accattivante, forma che risultò molto apprezzata dal grande pubblico.
[5] S. Pétrement, La vita di Simone Weil, cit., p. 80.
[6]Ivi, p. 143, Pétrement nell’autobiografia dell’amica riporta un articolo dove le ragazze scrivono: “Si preoccupava anche dei nostri bisogni materiali. Ci occorreva per esempio un libro per il francese? Eccola un giorno arrivare con molta fatica, carica di una ventina di libri che si era preoccupata di ordinare e pagare in anticipo, perché potessimo usufruire dello sconto concesso dai librai agli insegnanti.”
[7] Ivi, p. 144
[8] Giancarlo Gaeta, “Riflessioni sull’opera filosofico-religiosa di Simone Weil”, in D. Canciani G. Fiori G. Gaeta A. Marchetti, La passione per la verità, Morcelliana, Brescia (1985), p. 34.
[9] Ibidem
[10] S. Weil Joë Bousquet, Corrispondenza, cit. p.36
[11] Ivi, cit., p. 37
[12] S. Weil, Quaderni Volume I, cit., a p.182 si legge: “Tentazione alla pigrizia (fuga davanti alla vita reale con le sue limitazioni, e il tempo); tentazione della vita interiore (azioni che non raggiungono l’oggetto); tentazione del dominio (la potenza ha come correlato l’obbedienza fanatica); la tentazione della dedizione (subordinazione a un oggetto qualsiasi); tentazione alla perversità (rispondere a un male facendo di tutto per aumentarlo)”
[13] Ivi, p. 183
[14] S.Pétrement, La vita di Simone Weil, cit., p. 302
[15] Ivi, cit., pp. 306-307.
[16] Pensava qui al suo Progetto infermiere di prima linea, una missione operativa sul territorio francese a cui lei stessa avrebbe partecipato.
[17] S. Weil, “Lettera a Maurice Schumann”, in Una costituente per l’Europa, Scritti londinesi, cit., p. 66.
[18] Cfr. S. Pétrement, La vita di Simone Weil, cit., a p.108 la sua amica e compagna di studi Simone Pétrement scrive: “forse in lei c’era anche qualche predisposizione congenita al mal di testa. Ricordo che suo padre, cui lei somigliava, era soggetto alle emicranie e, quando ne soffriva, non mangiava come Simone. Mi sembra che i suoi mal di testa siano stati molto più gravi e dolorosi di quelli di suo padre. Sappiamo che da allora, ora più ora meno, ne avrebbe sofferto sempre. La sua vita ne fu intimamente oscurata come da una sventura.”
[19] Cfr. S. Weil, Quaderni volume II, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi Milano, 1985, alle pp. 43-44 circa le sue difficoltà Weil diceva: “i miei due nemici: fatica e disgusto (disgusto fisico per ogni sorta di oggetti), l’una e l’altro quasi invincibili e, in certe circostanze, possono in un momento farmi cadere molto in basso. Da sorvegliare.”; oppure alle pp. 253-254: “il disgusto sotto tutte le sue forme è una delle miserie più preziose che siano date all’uomo come scala per ascendere (io godo in misura molto ampia di questo favore)”
[20] William Shakespeare, La tragedia di Amleto, principe di Danimarca, Atto III, Scena I (1602)
[21] S. Weil, Quaderno Volume III, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi Milano, 2006, p. 45.
[22] Ivi, pp. 178-179.
[23] Ivi, p. 182.
[24] S. Pétrement, La vita di Simone Weil, cit., p. 47.
[25] Ibidem
[26] S. Weil, La prima radice, cit., p. 199.
[27] Tommaso Greco, Curare il mondo con Simon Weil, Laterza, Bari (2023), p. 117.