Come promesso oggi prenderò il coraggio a due mani ed esporrò un pensiero che, prima di tutto mi auguro non sia sbagliato e, secondariamente, spero possa essere di un qualche tipo di interesse.
Quando studiavo per l’esame ho speso due giorni nel tentativo di comprenderne meglio il senso. Mi ha dato molto da pensare.
Si tratta dell'antico e importante Trattato sulle parti del discorso e il rapporto del linguaggio col mondo, il Perì hermeneias di Aristotile, più noto come De interpretatione, parte dell'opera che vedete a fianco. Il passo è questo:
“Diciamo pertanto che ciò che si dà nella voce è costituito di simboli delle affezioni che si danno nell’anima, e le notazioni scritte sono simboli di ciò che si dà nella voce. E come le lettere scritte non sono le medesime per tutti, così neppure le voci pronunciate sono le medesime per tutti; ciò, tuttavia, di cui queste sono in primo luogo segni, sono per tutti le medesime affezioni dell’anima, e ciò di cui queste sono immagini, sono cose che sono già esse stesse le medesime.”
Che vor dì? Fàmola facile:
c’è qualcosa nel parlato degli individui che è contrassegno di ciò che succede nell’anima, e che ugualmente le lettere scritte esprimono al pari della voce. Ma le lettere scritte non sono uguali per tutti (tanti alfabeti diversi) e neanche le voci sono uguali per tutti (tante pronunce, tante lingue); solo ciò di cui sono indice sono le stesse per tutti, e ciò di cui sono immagine sono le stesse cose per tutti. Capito?
Ci vien detto che le affezioni dell’anima sono le stesse per tutti, universali. E le cose che sono nell’anima sono anche immagini di qualcosa di universale. Mentre le voci e le lettere no, cambiano. Aristotile sta dicendo che c’è un momento variabile nel linguaggio ma c’è un momento universale nell’anima: sono due dimensioni. E allora la domanda è:
Che cosa si dà nella voce?
Cosa sono queste affezioni dell’anima uguali per tutti?