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di Valeria Ballarati

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TESI 2.3 Sradicati e radicati

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Weil rimproverava alla Francia di non aver riconosciuto lo stato in cui versava.

Mentre in Germania lo sradicamento aveva assunto una forma aggressiva, “in Francia si manifestava come letargia e stupore”[1]. Era dunque paradossale osservare il suo non tener testa all’invasione germanica essendo la stessa nazione dal passato di sottomissione e di estensione per conquista nel mondo intero!  Nel doloroso crollo che sorprendeva tutti, la Francia dimostrava quanto poteva essere essa stessa sradicata: occupando altri territori aveva solo esportato lo sradicamento di cui soffriva, e pur continuando a manifestare esteriormente la sua bella chioma “un albero che abbia radici quasi completamente ròse, cade al primo urto”[2] scriveva la filosofa.  Accettando dunque il principio base chi è sradicato, sradica, va da sé che lo sradicamento accompagnato da forza è conseguenza diretta dell’espansione dei popoli europei su nuove terre ...


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TESI 2.2 L'indifendibile Europa

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Nel suo saggio sul colonialismo Aimé Césaire[1], poeta e politico della Martinica, uno dei fondatori del movimento Négritude[2], sostiene che l’Europa colonizzatrice è indifendibile e vale la pena studiare in dettaglio l’hitlerismo per far emergere rivelazioni fondamentali:

“(…) rivelare al borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo, che anch’egli porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso; ovvero (…) ciò che non perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco, l’umiliazione dell’uomo bianco, il fatto di aver applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei Coolie dell’India e dei negri dell’Africa.”[3]

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Tesi 1.3 La questione coloniale

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1.3 La questione coloniale

La questione coloniale era da sempre stata presente nel pensiero di Simone Weil, sin dalle prime esperienze di lavoro in fabbrica e sindacato, quando aveva provato di persona l’oppressione per la prima volta. Lei, che proveniva da una famiglia colta e agiata, per meglio capire le condizioni materiali del lavoro aveva voluto sperimentare direttamente il lavoro in fabbrica, per rendersi conto di cosa significasse lavorare alla catena di montaggio di una grande industria. Ma della questione coloniale parlò diffusamente solo nell’ultimo periodo della sua vita, una volta giunta a Londra per lavorare con France Libre, l’organizzazione politico-militare di resistenza anti-nazista creata dal Generale De Gaulle durante la seconda guerra mondiale, che attirava intellettuali francesi. L’anticolonialismo di Simone Weil nacque perciò molto presto, dalla consapevolezza che l’oppressione colpiva pesantemente gli abitanti delle molte colonie francesi.

La prima volta che si era sentita coinvolta in questa storia aveva solo ventuno anni e fu a causa della sanguinosa repressione attuata a Yen Bai in Indocina (Tonchino), nel 1930:[1] gli indigeni erano stati uccisi per la loro voglia di indipendenza. Lei lo aveva saputo dal quotidiano.

Come ogni mattina passava a ritirare le Petit Parisien, il giornale che leggeva a pranzo, dove il giornalista e scrittore Louis Roubaud[2] aveva scritto un’inchiesta coraggiosa e ben documentata. La tragedia indocinese scaturiva dalla rivalsa francese per l’uccisione di suoi ufficiali ad opera della guardia indocinese, e la risposta francese aveva fatto secondo alcune stime 10.000 vittime tra contadini e popolazione civile, una repressione enorme e spietata che tornerà nei suoi scritti costantemente. Nel leggere delle violenze e dell’uccisione degli operai ammanniti, impotenti di fronte a tanta forza bruta, lacrime di vergogna le avevano rigato il viso e racconta che l’anno successivo, il 1931 periodo dell’esposizione coloniale internazionale di Parigi,[3] percepiva palpabile la contraddizione esistente tra la tranquilla e incosciente folla parigina piena di ammirazione del Tempio di Angkor-vat, e la loro indifferenza rispetto alle sofferenze inflitte a quel popolo proprio dal colonialismo francese.

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TESI 2 Forme e metodi del colonialismo 2.1 Struttura del dominio

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Capitolo 2 - Forme e metodi del colonialismo

Mien, tien.

Ce chien est à moi, disaient ces pauvres enfants;

c’est là ma place au soleil.

Voilà le commencement et l’image

De l’usurpation de toute la terre.

Blaise Pascal, pensée 231


Day-o, day-o

Daylight come and me wan' go home

Work all night for a drink of rum

(Daylight come and me wan' go home)

Stack banana till de morning come

(Daylight come and me wan' go home)

Come, Mister tally man, tally me banana

(Daylight come and me wan' go home)

Day-o (Banana Boat Song)

Harry Belafonte, 1956[1]


[1] Harry Belafonte é stato un cantante e un attivista per i diritti civili. La sua famosa canzone Day.O (Banana Boat Song) é un canto popolare giamaicano che racconta le dure condizioni di lavoro coloniale dei caricatori delle navi bananiere: lavorando tutta la notte nel farsi giorno vogliono andare a casa, attendono solo che Mr tally man (il contabile) conti le casse caricate. Belafonte partecipò come speaker alla marcia su Washington del 1963 per il lavoro e la libertà, a sostegno dei diritti civili ed economici per gli afroamericani, sotto la presidenza di John Fitzgerald Kennedy. In quell'occasione, il leader afro-americano Martin Luther King Jr. pronunciò al Lincoln Memorial lo storico discorso I have a dream, invocando la fine del razzismo e la pace tra bianchi e neri. Nella stessa occasione Harry Belafonte dirà: “Crediamo che gli artisti abbiano una funzione di valore in ogni società, poiché sono gli artisti che rivelano la società a sé stessa”.

La traduzione è mia dal video sottostante (al min. 5’10). https://abcnews.go.com/US/video/archival-video-harry-belafonte-speaks-march-washington-1963-45832971.


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Tesi 1.2 Parole vuote e omicide

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Capitolo 1 - Cause, radici e sviluppi dell'oppressione sociale.

1.2 Parole vuote e omicide

Nell’analizzare i grandi ideali per i quali si è portati all’uso della violenza e della forza, nel testo del 1937 Non ricominciamo la guerra di Troia[1], Weil scopre che quelli di fatto sono parole che coprono un vuoto effettivo, e che sono utilizzate prevalentemente in politica: nazione, sicurezza, proprietà, democrazia, ordine autorità. Le chiama “parole omicide” perché non indicano obiettivi da raggiungere e non hanno altro scopo che la morte. In presenza di un obiettivo concreto, attraverso una forma di dialogo e compromesso, l’obiettivo sarebbe alla portata dei rivali, ma come nella guerra di Troia non c’è e le parole hanno il ruolo di Elena, abbellite di maiuscole ma senza contenuto.

Weil vorrebbe smascherare l’ipocrisia, togliere la patina di inganno, quel vocabolario artificiale in uso alla politica che genera potere, violenza, e perciò uso della forza con il pretesto della sicurezza o del bene pubblico.


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