Molti mi segnalano sbigottiti che la società di uno dei soliti miliardari da strapazzo è stata ufficialmente autorizzata a sperimentare in vivo il Brain-Computer Interface (BCI), ossia a impiantare nel cervello di qualche povero disgraziato un bel chip che consenta al disgraziato medesimo di interagire direttamente con un computer.
Ovviamente la società e il miliardario in questione concionano di possibili applicazioni cliniche che consentiranno al BCI di rimediare – un giorno, forse, chissà – ai danni arrecati dalle solite malattie neurodegenerative i cui nomi vengono sgranati dai santoni della biomedicina neanche fossero le decine del rosario (Alzheimer, ora pro nobis; Parkinson, ora pro nobis, Corea di Huntington, ora pro nobis, ecc.). E così facendo continuano a intortare il pubblico sulle meraviglie della scienza facendo il verso alla inflazionata frase di incerta paternità, e di ancor più ambiguo contenuto, che fa bella mostra di sé nella sala delle conferenze del CNR: “La luce della scienza cerco e’l beneficio”.
Ora, a parte il fatto che di miliardari più o meno sani di mente che finanziano progetti più o meno diabolici è piena la letteratura, c’è bisogno di ricorrere alla letteratura, appunto, per capire che il BCI non si prefigge scopi clinico-terapeutici, ma di controllo a distanza e di soggiogamento totalitario?