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di Valeria Ballarati

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Tesi 1.3 La questione coloniale

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1.3 La questione coloniale

La questione coloniale era da sempre stata presente nel pensiero di Simone Weil, sin dalle prime esperienze di lavoro in fabbrica e sindacato, quando aveva provato di persona l’oppressione per la prima volta. Lei, che proveniva da una famiglia colta e agiata, per meglio capire le condizioni materiali del lavoro aveva voluto sperimentare direttamente il lavoro in fabbrica, per rendersi conto di cosa significasse lavorare alla catena di montaggio di una grande industria. Ma della questione coloniale parlò diffusamente solo nell’ultimo periodo della sua vita, una volta giunta a Londra per lavorare con France Libre, l’organizzazione politico-militare di resistenza anti-nazista creata dal Generale De Gaulle durante la seconda guerra mondiale, che attirava intellettuali francesi. L’anticolonialismo di Simone Weil nacque perciò molto presto, dalla consapevolezza che l’oppressione colpiva pesantemente gli abitanti delle molte colonie francesi.

La prima volta che si era sentita coinvolta in questa storia aveva solo ventuno anni e fu a causa della sanguinosa repressione attuata a Yen Bai in Indocina (Tonchino), nel 1930:[1] gli indigeni erano stati uccisi per la loro voglia di indipendenza. Lei lo aveva saputo dal quotidiano.

Come ogni mattina passava a ritirare le Petit Parisien, il giornale che leggeva a pranzo, dove il giornalista e scrittore Louis Roubaud[2] aveva scritto un’inchiesta coraggiosa e ben documentata. La tragedia indocinese scaturiva dalla rivalsa francese per l’uccisione di suoi ufficiali ad opera della guardia indocinese, e la risposta francese aveva fatto secondo alcune stime 10.000 vittime tra contadini e popolazione civile, una repressione enorme e spietata che tornerà nei suoi scritti costantemente. Nel leggere delle violenze e dell’uccisione degli operai ammanniti, impotenti di fronte a tanta forza bruta, lacrime di vergogna le avevano rigato il viso e racconta che l’anno successivo, il 1931 periodo dell’esposizione coloniale internazionale di Parigi,[3] percepiva palpabile la contraddizione esistente tra la tranquilla e incosciente folla parigina piena di ammirazione del Tempio di Angkor-vat, e la loro indifferenza rispetto alle sofferenze inflitte a quel popolo proprio dal colonialismo francese.

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Tesi 1.2 Parole vuote e omicide

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Capitolo 1 - Cause, radici e sviluppi dell'oppressione sociale.

1.2 Parole vuote e omicide

Nell’analizzare i grandi ideali per i quali si è portati all’uso della violenza e della forza, nel testo del 1937 Non ricominciamo la guerra di Troia[1], Weil scopre che quelli di fatto sono parole che coprono un vuoto effettivo, e che sono utilizzate prevalentemente in politica: nazione, sicurezza, proprietà, democrazia, ordine autorità. Le chiama “parole omicide” perché non indicano obiettivi da raggiungere e non hanno altro scopo che la morte. In presenza di un obiettivo concreto, attraverso una forma di dialogo e compromesso, l’obiettivo sarebbe alla portata dei rivali, ma come nella guerra di Troia non c’è e le parole hanno il ruolo di Elena, abbellite di maiuscole ma senza contenuto.

Weil vorrebbe smascherare l’ipocrisia, togliere la patina di inganno, quel vocabolario artificiale in uso alla politica che genera potere, violenza, e perciò uso della forza con il pretesto della sicurezza o del bene pubblico.


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Tesi, Introduzione: alle radici greche del culto della forza

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Pubblico la prima parte della mia tesi, come anticipato.

Buona lettura!


Fedeli a se stessi:

il rapporto oppresso-oppressore nelle riflessioni in Simone Weil.



Introduzione

Alle radici (greche) del culto della forza

Il rapporto oppresso-oppressore è un tema che attraversa ogni epoca.

Simone Weil, filosofa e scrittrice francese vissuta agli inizi del Novecento, ne aveva un’idea precisa. Nel 1933-1934 quando insegnava filosofia presso il liceo femminile di Roanne, e mentre si intravedeva già in questi anni la sua voglia di uscire dalle “retrovie”, dato che rimanere fedele a se stessa era uno dei suoi tratti caratteriali, esplicitava già questo tema nel testo Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale[1] dove, fin dalle prime righe, dominava l’argomentare sull'oppressione sociale.

“Se comprendessimo le cause dell’oppressione, non ci troveremmo più in questo stato insopportabile che consiste nel subirla, immersi nello smarrimento.”[2]

Occorreva dunque andare alla ricerca delle cause dell’oppressione nella società, cause che Simone Weil individuava in prima battuta nell’ambiente di lavoro, ma che approfondirà successivamente a partire dall’analisi delle forme in cui l’oppressione si era storicamente data, ovvero ricollegandole a un culto della forza con radici antichissime, che risalivano alla Grecia e proseguivano nell’Impero Romano e anche nella Francia del Cardinale Richelieu.


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Tesi 1 Cause, radici e sviluppi dell'oppressione sociale 1.1 l'oppressione sociale

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Capitolo 1

Cause, radici e sviluppi dell’oppressione sociale


“Non camminare davanti a me, potrei non seguirti;

non camminare dietro di me, potrei non sapere dove andare;

cammina a fianco a me e sii per me un amico!”

Albert Camus


“On les voit à peine, on les sent, plutôt qu’on ne les voit.

On à des peines infinies à les faire sentir à ceux qui ne les sentent pas d’eux-memes (…)”

Blaise Pascal, pensée 21 - Esprit de géometrie et ésprit de finesse


1.1 L’oppressione sociale

Era una Simone Weil giovanissima quella che a soli venticinque anni prendeva coscienza di snodi fondamentali, e scriveva riflessioni impattanti e significative essendo mossa da sete di giustizia e apertura verso l’altro suo simile. Pensava naturalmente ad alcune soluzioni pratiche, come era il suo modo di reagire alle situazioni nel tentativo di “riparare il mondo”, analizzando dapprima le cause e le forme in cui l’oppressione sociale si era storicamente data.

“Dal punto di vista morale l’oppressione è un insulto alla dignità della natura umana”[1] scriveva nella lezione di filosofia sull’oppressione sociale per le sue allieve al liceo femminile di Roanne, nel 1933-34, appena dopo il primo periodo di insegnamento a le Puy, dove la militanza nel sindacato rivoluzionario e le umane frequentazioni con gli operai avevano generato uno scandalo,[2] e persino interventi delle autorità scolastiche a verifica dei suoi metodi di insegnamento, risultati ineccepibili.

E’ l’anno in cui scrive l’articolo Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale a cui teneva molto, una sorta di “testamento” prima dell’ingresso in fabbrica, testo che le prenderà molte energie[3] a partire dalla primavera e per buona parte dell’estate assumendo infine le dimensioni di un piccolo libro.[4] Datata 20 giugno 1934 è anche la domanda di aspettativa per “studi personali” dove non parla naturalmente del suo voler lavorare in fabbrica ma descrive il progetto in questi termini:

“Desidererei preparare una tesi di filosofia concernente il rapporto della tecnica moderna, base della grande industria, con gli aspetti essenziali della nostra civiltà, cioè da un lato la nostra organizzazione sociale e dall’altro la nostra cultura.”[5]


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Antoine de Saint-Exupéry

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Nella ricorrenza della nascita dell'autore del mio libro preferito, mi piace ricordarlo con le parole di tanti anni fa; le trovate ancora nel Menu qui a destra, alla voce Letture consigliate.


Il Piccolo Principe

Antoine de Saint Exupéri - Bompiani

Perché il Piccolo Principe è il mio libro preferito rimane un mistero.

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